Prologo - Time flies (Pt. 1)

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"Il tempo è troppo lento per coloro che aspettano, troppo rapido per coloro che temono, troppo lungo per coloro che soffrono, troppo breve per coloro che gioiscono, ma per coloro che amano il tempo è eterno" - Henry van Dyke


Ci si poteva perdere, in quel labirinto infinito di strade cupe e anguste.

Ci si poteva perdere, e mai più ritrovare il punto di partenza, in quelle strade lastricate ed antiche, strette tra palazzi dagli intonaci colorati che sembravano appartenere ad un'epoca ormai lontana.

Il tempo stava volando, ma quella città sembrava rimanere sempre la stessa, sospesa negli attimi, ed essere sempre diversa allo stesso tempo: non erano cambiati i lunghi canali, dove l'acqua sciabordava e rifletteva i raggi del sole, alto nel cielo. Le barche che partivano dal molo tagliavano ancora l'acqua della laguna, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sempre sotto le luci di San Marco e accompagnate dal volo dei gabbiani.

Ma oscillavano le foglie degli alberi, dondolate dal vento e cullate da quella stessa brezza che, da un momento all'altro, le avrebbe fatte cadere in un lungo viaggio di morte fino al terreno. Erano le stesse foglie che sarebbero rinate la primavera successiva, sui rami di quegli alberi dalla vita lunga e infinita, e che sarebbero morte ancora una volta nell'inverno successivo.

Tutto oscillava come un pendolo, tra l'immutabilità immobile e il cambiamento dinamico delle cose; tra la monotonia eterna e gli attimi fuggenti che si coglievano a fatica; tra la vita e la morte, e tutte le altre eterne leggi che governavano il mondo.

E il tempo volava, inesorabile, a volte lento e a volte più veloce, lasciando dietro di sé strascichi passati, volando sempre più vicino ad un futuro ormai divenuto presente.

***

Osservava le acque scure della laguna ondeggiare al ritmo del vento e infine infrangersi contro le pance delle barche ormeggiate sul molo. Il cielo si stava facendo sempre più scuro, ed alzando il capo vide nuvole plumbee farsi sempre più minacciose: avrebbe piovuto tra poco.

Sarebbe dovuto tornare a casa, ma non riusciva ad alzarsi da quella panchina. Non sapeva da quanto tempo si trovasse lì, ad osservare le acque profonde farsi sempre più agitate, i vaporetti veneziani che di tanto in tanto riempivano il silenzio con il loro rombo.

Una prima goccia di pioggia gli arrivò sul viso, destandolo da quella sorta di ipnosi nella quale era caduto già da tempo. Doveva andarsene, ma per la prima volta in vita sua non sentiva affatto la voglia di tornare a casa.

Si sentì un mostro, a quel pensiero: chissà come doveva sentirsi Caterina in quel momento. Forse stava piangendo fuori tutte le lacrime trattenute, o forse non stava facendo nemmeno quello, troppo ferita e troppo sola anche solo per aver la forza di sfogarsi in un qualsiasi modo.

Sì, doveva essere così: probabilmente non stava piangendo. Molto più probabile si stesse domandando perché era tornata con qualcuno che l'aveva abbandonata e lasciata a se stessa per molto meno già quattro anni prima.

Nicola si prese il capo tra le mani: era sicuro di non essersi mai sentito così in vita sua. Così sprovveduto, egoista, codardo. Aveva appena toccato il fondo, preferendo scappare da tutte le sue paure piuttosto che rimanere accanto alla donna che amava.

"Perché l'ho fatto, perché?".

Era più forte di così, doveva esserlo. Doveva farlo per sé, per Caterina ... Per lui, o lei, o qualunque cosa fosse. Ancora non si rendeva bene conto di ciò che Caterina gli aveva detto, e ancora gli sembrava tutto così irreale, anche solo per poterlo pensare.

Riaprì gli occhi lentamente, e davanti a lui trovò la stessa identica immagine di quando li aveva chiusi: era quella la realtà che stava vivendo. Non era un sogno, né un miraggio: non poteva rifugiarsi nell'idea che di lì a poco si sarebbe svegliato, come una qualunque mattina, pensando di aver vissuto un incubo lungo solo una notte.

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