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Credo di non aver mai odiato così tanto un aeroporto. I miei occhi sono gonfi e arrossati, freschi di pianto. Le porte automatiche si aprono al mio arrivo e, una volta entrata nel grande atrio di questo aeroporto internazionale, cerco di capire qualcosa al grande tabellone delle partenze. A stento trovo il mio volo per Roma, ma non riesco a ragionare lucidamente. La testa mi pulsa e le mie palpebre pregano di potersi chiudere.
Mi incammino verso il check-in, quando un messaggio da parte di Cooper interrompe la mia camminata. Vuole sapere se tutto sta procedendo liscio. Lo tranquillizzo con due semplici parole, dicendo che va tutto bene. Blocco il telefono e una foto mia e di Gianluca mi viene sbattuta in faccia: risale ad ottobre, alla nostra vacanza a Roseto.
Sento un vuoto nello stomaco, e capisco che pensare a lui non migliorerà di certo le cose. Gli ho lasciato una lettera breve e semplice. Gli ho detto che lo amavo, ma che quello non era il posto giusto per me. Gli ho pregato di non cercarmi; che se dopo mi avesse odiata, l'avrei capito. A me interessa solo di lui. Poco mi frega del mio di dolore, a quello mi ci abituerò. Il pensiero di avergli fatto del male, di non poter tornare da lui, di averlo dovuto lasciare così, mi tormenta.
Le gambe sono deboli e lo stomaco vuoto contribuisce a dei crampi dolorosi. Decido di sedermi e il mio occhio cade sulla mia borsa e il mondo che vi è contenuto all'interno di essa: dalla macchina fotografica fino a diverse foto sviluppate. Quest'ultime non c'entrano con il lavoro. Sono foto che ho fatto nel corso di questi sei mesi con loro. Foto buffe, di paesaggi, di concerti. Le guardo con un sorriso nostalgico stampato in viso.
Dalle foto dell'alba newyorkese, passando per il mare agrigentino, i baci tra me e Gianluca, gli abbracci con Margherita, le serate con Piero... rivivo ogni singolo momento e sorrido inevitabilmente. Mi rendo anche conto che, alla fine, tutti i miei ricordi più belli sono legati ad una vita che non mi apparterrà più, che non mi è mai appartenuta. La mia attenzione ricade su una foto in particolare: è una foto di gruppo. Ci siamo tutti, sorridenti e felici. Risale a due giorni prima la partenza di Megan. Noi e la spiaggia brasiliana. Un peso sul petto mi soffoca, il battito rallenta. Sto davvero facendo la cosa giusta? No, che domande, è ovvio che non lo è. Ma credo di non avere scelta. Me ne devo andare, devo farmene una ragione.
Improvvisamente mi torna in mente una cosa che la signora che mi ha cresciuta mi diceva sempre: "Se hai un dubbio, mettiti nei panni della persona che più ammiri al mondo, e chiediti cosa farebbe lei al posto tuo. La risposta arriva."
Ci ripenso e forse la persona che ammiro di più è proprio lei, colei che è stata come una madre per decine di bambini, quando la vera madre non lo era; che ha contribuito alla mia crescita, al mio modo di essere, che incentivava a coltivare le mie ambizioni e i miei desideri. Lei cosa farebbe al mio posto? Probabilmente non saprebbe nemmeno lei cosa fare. Nemmeno lei avrebbe una risposta a queste domande. O forse magari sceglierebbe di seguire il cuore, come ha sempre fatto. E io, il mio cuore, lo posso seguire? Forse no.

"Ultima chiamata per il volo Alitalia diretto a Roma."

Mi prende un colpo appena noto di aver troppo fantasticato e di essere in pieno ritardo. Non c'è più tempo per pensarci. Istintivamente afferro per i manici le valigie e corro a passo svelto lungo il check-in. Arrivo davanti ad essi e mi fermo. Prendo un respiro profondo. So cosa fare. Prendo il telefono e compongo il numero, lasciando che la parte irrazionale prevalga contro la razionale.
"Elisabetta! Stai per partire?"
Ci penso. Faccio parlare il cuore.
"Non ce la faccio, Cooper. Io mollo."
Ho riscoperto la felicità.

[...]

Ho spento entrambi i cellulari, tagliato ogni tipo di comunicazione via internet, Cooper mi tormenta. Esco dall'aeroporto e mi rendo conto di aver appena compromesso la mia carriera, bruciato cinquantamila dollari, aver distrutto un progetto andato avanti sei mesi, e di essere in possesso di documenti falsi che potrebbero portarmi all'arresto. Sì, ho fatto una cazzata. Una enorme, gigante, stratosferica cazzata.
Ma la rifarei ancora.
Fuori è quasi l'alba, e io mi faccio riportare in hotel. Rientro in stanza, lui dorme ancora, non si è accorto di nulla. La prima cosa che faccio è fare a pezzi quella lettera, per poi scaricarli nel water. Lo sento mugugnare qualcosa, si rigira tra le coperte.
"Emma..." mi chiama, ancora addormentato, non avvertendo la mia presenza accanto a lui.
Mi cambio e mi rimetto sotto le coperte, accanto a lui. Il sole filtra già dalle tende, è già quasi ora di alzarsi. Mi accuccio accanto a lui, poggiando la testa sul suo petto. Lui istintivamente mi stringe, facendomi sentire chiaramente i battiti del suo cuore.
Ne è valsa la pena.

[...]

Vengo svegliata da dei leggeri baci sul collo, che arrivano fino alle labbra. Apro a fatica gli occhi e lo vedo, in tutto il suo splendore: dai capelli spettinati, alle sue iridi ancora più verdi e illuminate dalla luce del mattino; fino al suo sorriso, che mi rassicura.
"Buongiorno..." sussurra con la sua voce roca.
"Ciao..." rispondo, dandogli un bacio. Guardo l'orologio e mi rendo conto di aver dormito circa un paio d'ore. La testa mi pulsa e gli occhi mi bruciano. Mi alzo e mi faccio una doccia, nella speranza di riprendermi, ma nulla.
Mi passa continuamente nella testa la scena della chiamata, del mio ritorno. E mi chiedo se ho davvero fatto la scelta giusta.Sì, l'ho fatta. Mi basta guardarlo per darmi una risposta. Così come mi basta guardare Ignazio, Piero e tutti coloro che ormai definisco la mia famiglia.
L'occhio mi ricade sul cellulare: non lo accendo da dopo la telefonata. Prendo coraggio e come previsto mi ritrovo circa quaranta chiamate perse di Cooper e altri numeri non registrati, e una decina di messaggi.
Apro la casella dei messaggi e, insieme a quelli di Cooper dove mi prega e minaccia di ritornare sui miei passi, c'è anche uno di Burton, il mio collega. Avrà trovato finalmente il mittente dei messaggi anonimi, penso. Mi prega di richiamarlo il prima possibile.
Prima che possa comporre il suo numero, però, ricevo l'ennesima chiamata di Cooper.
Gianluca nel frattempo è entrato in bagno per farsi la doccia. Prendo un respiro profondo ed esco fuori dalla stanza, dirigendomi a piano terra, nei giardini dell'albergo. Capisco che non posso nascondermi a vita.
"Pronto?"
"Elisabetta Neri, se entro oggi non sali su un cazzo di aereo diretto a Roma, te la dovrai vedere con me." il suo tono è fermo, deciso. Spegnere il cellulare è stato un ottimo modo per sviare dal suo attacco di ira.
"Quello che stiamo facendo è sbagliato, Cooper. Stai invadendo la privacy di un ragazzo di ventidue anni, e i sentimenti li ha anche lui. E sai che c'è? Anche io li ho. Io ci tengo a questi ragazzi, e non permetterei a nessuno di ferirli. E poi io? Dovrei pure passare per la stronza di turno che ha fatto lasciare Gianluca dalla ragazza. Le persone hanno dei sentimenti, Cooper. E non sono roba da niente."
"...me ne fotto dei sentimenti! Elisabetta, inviaci quelle maledette foto. Non te lo ripeterò un'altra volta."
"Oppure?" lo sfido, non mi fa paura.
"Oppure è meglio se ti guardi le spalle." mi intima, chiudendo la telefonata.
Rimango perplessa dalle sue parole, e un po' di preoccupazione inizia ad impossessarsi di me.
Nel frattempo decido di richiamare il mio collega, per sapere novità.
"Neri sarò breve e diretto: il numero da cui provengono i messaggi è italiano, e registrato sotto il nome di un uomo, un certo James Cooper, spia anche lui."
Mi si gela il sangue. Cooper? James Cooper mi ha mandato per mesi messaggi di minacce? A che pro?
"Ci sei?"
"Ehi, si scusa, va bene. Grazie."
Riattacco e il cuore mi batte all'impazzata. Cosa sta succedendo?
"Paura eh, Neri?"
Quella voce.

Photograph || Il Volo Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora