CAPITOLO 60

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DOLÓRE s. m. [lat. dolor -ōris, der. di dolere «sentir dolore»]. – 1. Qualunque sensazione soggettiva di sofferenza provocata da un male fisico. –  2. Patimento dell’animo, strazio, sofferenza morale.

Ricordo solo frammenti.
Piccoli pezzi di un puzzle sconnesso.
Dei lampi di luce o suoni.
Delle parole o delle voci.
Immagini sfocate con un bordo nero.
E poi il dolore.
Ricordo moltissimo dolore.
Ogni parte del mio corpo era attraversata da scosse elettriche di pura sofferenza che non mi permetteva di respirare.

Riesco ad aprire gli occhi e mi ritrovo nella cunetta in cui ci hanno spinte. Dal motore esce del fumo bianco. Accanto a me è rimasta solamente la portiera del passeggero aperta. L'hanno presa.

Allungo la mano sulla mia tasca del pantaloni con estrema fatina ed estraggo il cellulare. Riesco a comporre il numero d'emergenza dal quale risponde il centralino.

"Sono il Sergente Macarena Ferreiro, necessito di immediati soccorsi"

La testa è una turbina in movimento. Mi viene risposto che hanno localizzato l'auto, che saranno qui a momenti. Sono convinta che ce la farò non perché io sia immortale ma perché non ho ancora finito di soffrire. Non ho ancora perso tutto. Dio non ha ancora finito di punirmi.

Il tutto procede alla velocità della luce intervallato da momenti al rallentatore. Sono frammenti di immagini sulla linea del tempo intervallati dal buio. Prendo e riperdo conoscenza in continuazione.

So che sono rimasta in agonia per una quantità di minuti che è difficile da decifrare.

So che mi hanno caricata sull'ambulanza soli dopo avermi fatto un'iniezione di adrenalina.

So che mi sono opposta alle prime cure lungo il tragitto verso l'ospedale finché non mi hanno tenuta ferma in tre, mi hanno obbligato a tenere la mascherina per l'ossigeno.

Hanno detto che ho avuto un incidente, ma non è vero. Non è stato un incidente.

Chiamo ripetutamente il suo nome con la stupida convinzione che possa rispondere e che questo sia solamente un enorme equivoco. Inutile dire che non ricevo alcuna risposta.

Lo tsunami che ho sempre mantenuto dentro di me di scatena. Perdo il controllo tanto che non riesco a stare ferma.

Aprono i portelloni dell'ambulanza. La barella viene scaricata. Penso che non ho tempo per questo. Non ho tempo di sapere come sto: voglio ritrovarla.

Ma il dolore sparso per tutto il corpo e la mia debolezza non agevolano altro che il lavoro dei medici.

C'è una squadra pronta per me.

Mi portano dentro mentre urlano fra loro parole che non distinguo.

Puntano le luci delle torce negli occhi.

Commozione celebrale.

Ovunque toccano, sento male.

Sono quasi sicura di non aver nulla di rotto, quasi.

Dalla barella mi passano al lettino.

Sento gli aghi perforare la mia pelle.

Flebo e trasfusioni di sangue, dicono che ne ho perso parecchio.
Dicono che l'impatto è stato tremendo.
Dicono che avrò bisogno di tempo per rimettermi completamente, tempo che non ho.

Mi dicono di stare tranquilla, che è tutto finito ma invece non è finito niente.
Mi dicono che andrà tutto bene ma invece non me lo possono garantire.
Mi dicono di rimanere calma ma è impossibile perché io sto pensando che dovrei essere là fuori a cercarla.
Mi dicono tante cose, ancore alle quali non posso aggrapparmi, la stanchezza e i sonniferi prendono il sopravvento finché dei frammenti rimane solo un gigantesco vuoto nero.

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