Faccia A Faccia

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Il giorno dopo non ebbi nemmeno voglia di alzarmi dal letto. Lo shock nel scoprire la verità su mio padre, mi aveva completamente tolto la voglia di fare ogni cosa.
Mi giravo e rigiravo in continuazione da ore su quel materasso morbido, ma diventato ormai scomodo, continuando a tempestarmi di domande.
Aveva saputo della morte della mamma?
Se ne era venuto a conoscenza, perché non era venuto a prendermi?
E perché lei non aveva mai voluto rivelarmi la vera identità di mio padre?
E sopratutto, perché non ha provato a cercarmi per tutti questi anni?
Domande. Domande.
Sempre e solo domande, e mai qualcuno che mi desse una risposta.
«Aaah. Non ce la faccio più!», sospirai ad alta voce, dimenandomi sul letto e scuotendomi i capelli con fare nervoso.
Mi stesi a pancia in giù, facendo cadere a penzoloni le braccia fuori dal materasso.
«Sei impazzita del tutto?» Mi chiese Ace divertito, entrando nella nostra cabina seguito a ruota da Kotatsu che lo superò con un degno scatto da felino, balzando sul letto accanto a me. Si accoccolò con la testa sulle mie gambe, impedendomi di muovermi, cominciando ad emettere delle fusa rilassanti.
«Probabile», ammisi con la vitalità di un verme.
«Stai vegetando sul letto da stamattina. Non hai intenzione di alzarti?» Mi chiese poi Ace, sedendosi accanto a me.
Sbuffai. «Perché dovrei? Non c'è niente da fare su questa nave», mi lamentai.
«Aaah, quindi stai qui per noia?».
«Più o meno», mentii.
Come potevo dire a Ace che avevo scoperto chi era mio padre?
Come l'avrebbe presa? Sicuramente non bene.
Di certo non potevo confidargli una cosa del genere, senza prima averci pensato almeno cento volte.
Inoltre, non ero certa di volerglielo dire.
Visti i loro trascorsi, sapere di aver attentato per giorni alla vita del mio unico genitore rimasto in vita, non lo avrebbe fatto stare meglio di quanto stavo io in quel momento.
«Ti ho portato qualcosa da mangiare», disse afferrando un panino incartato dalla tasca dei suoi bermuda neri «Hai saltato la colazione, oggi».
«Non avevo fame», ammisi.
«Tu non hai mai fame», mi corresse lui, divertito «Tieni. Ti ho fatto un panino. Mangia almeno questo, visto che è ora di pranzo. Così sto più tranquillo».
Allungai una mano per afferrare il panino che riuscii a intravedere con la coda dell'occhio, per poi posarlo sul letto, tornando alla mia posizione da vegetale.
«L'ho fatto con insalata e maionese. Il tuo preferito», continuò lui, sperando di farmi venire voglia di mangiarlo.
«Grazie», mormorai apatica.
Lo sentii sospirare.
«Va bene, mi arrendo. Mangialo quando hai voglia».
Sospirai anch'io, ancora una volta.
La millesima quel giorno, continuando a pensare alla notte precedente.
Mi ero sempre immaginata mio padre, ma non avrei mai pensato che potesse essere così.
Non avevo notato dettagli in lui che potessero essere associati a me.
Nessun particolare che potesse farci assomigliare.
«Che ti prende, oggi?» Mi chiese Ace, iniziando ad accarezzarmi i capelli «Sei strana. Non ti ho mai vista così».
Voltai la testa verso di lui, posandola sul materasso.
Ci osservammo con sguardi diversi, senza dire una parola.
«Grazie per avermi lasciata da sola, stamattina. Ne avevo bisogno».
Mi sorrise.
«Nessun problema. Credo che in certe occasioni sia necessario».
Corrugai le sopracciglia, confusa.
«Di che stai parlando?».
«Sì, insomma... quella cosa... che viene ogni mese alle ragazze».
Mi issai con le braccia in preda all'imbarazzo. «Ma che ti viene in mente?».
«Non c'è bisogno di imbarazzarsi così tanto», disse lui diventando, ma rosso come un pomodoro per la vergogna, cominciando a grattarsi la testa con un dito, distogliendo lo sguardo «Deuce ha detto che è una cosa normale per le ragazze».
«Avete parlato di... mestruazioni?» Urlai ancora più a disagio.
«È imbarazzante anche per me, ok?» Si giustificò Ace, alzando il tono della voce «Non e facile per un ragazzo, parlare di sindrome premestruale».
«Ace, ti prego. Basta», lo implorai, tappandomi le orecchie per non sentirlo più.
«Quindi, ce l'hai o no?».
«No!» Esclami, per poi ributtarmi sul letto, voltando la testa dall'altra parte.
Ace sbuffò, calmandosi e io feci lo stesso.
Non parlammo per un minuto intero.
Ognuno pensava a cosa dire per sdrammatizzare quella situazione.
«Ho voluto stare per conto mio... per pensare», ammisi, rompendo il silenzio.
«A cosa?».
Mi morsi il labbro, voltando lo sguardo nuovamente verso di lui.
«A mio padre», risposi, attendendo una sua reazione.
«Vuoi ancora cercarlo?».
Deglutii nervosamente.
Non me la sentivo di mentigli, ma avevo il terrore che una volta scoperta la verità, le cose tra noi sarebbero cambiate.
«Posso farti una domanda?» Chiesi seria.
«Sì, certo»
«Che ne pensi di Barbabianca?»
Mi guardò stranito.
«O meglio, ora che non vuoi più ucciderlo... come lo vedi?».
Ci pensò un momento, prima di rispondere.
«Be', credo che mi lasci del tutto indifferente».
«Indifferente?».
«Quell'uomo non è nulla per me», ammise serio, spezzandomi il cuore.
In verità, non avrebbe dovuto importarmene.
Non lo conoscevo nemmeno.
Ci aveva aiutati tramite i suoi uomini, ma non avevamo mai avuto occasione di parlarci.
Le volte che Ace lo aveva visto, erano state per provare a ucciderlo. E io, lo vidi nello stesso istante in cui scoprii il suo segreto.
Non avrebbe dovuto importarmi dei sentimenti di Ace per quell'uomo.
«Perché me lo chiedi?».
Cercai la scusa per non dirgli ciò che realmente pensavo.
«Deuce mi ha parlato qualche giorno fa. Mi ha detto che alcuni uomini si sentono in debito con Barbabianca. Inoltre, si trovano molto bene qui, quindi gli hanno detto che vorrebbero... restare».
Ace contrasse la mascella, ma non si mosse.
Conoscendolo, probabilmente stava lottando contro sé stesso per non esplodere, con il rischio di incendiare la cabina, però poteva essere imprevedibile a volte.
«Possono fare ciò che vogliono», ammise, abbassando il capo per guardare il pavimento «Non voglio costringerli a stare con me. Accetterò di non essere più il loro capitano, se è ciò che vogliono».
«Non dire stupidaggini. Lo sai benissimo che non è questo il motivo per cui vogliono restare», lo tranquillizzai «È il senso di famiglia che c'è su questa nave, che li fa sentire a casa».
Ace mi guardò confuso.
«Marco ha ragione. Anche se è solo un'idea... qui c'è un senso così forte di famiglia da far sembrare tutto reale».
Dopo qualche secondo, Ace sorrise.
«Ti sei già affezionata, vero?».
«Uhm?».
«Ai pirati di Barbabianca. Già li reputi parte della tua famiglia», dedusse, sicuro delle sue parole.
Sorrisi a mia volta. «Mi conosci».
Sospirò, stendendosi sul letto.
Mi alzai per sistemarmi meglio con il busto sopra di lui, mentre Kotatsu si alzò per cambiare posizione.
Mi posai sul suo petto scolpito, sorridendo alla vista del cappello che si era messo sulla faccia per coprirlo.
Lo alzai lentamente, notando che quelle iridi nere che tanto amavo, mi stavano aspettando.
Sorridemmo, complici dei nostri pensieri.
«Mi farai impazzire, cosina».
«Credevo che fosse già successo», ammisi ironica.
«Stando con te, non si può stare sani di mente», disse lui sorridendo ancora di più, mostrandomi i suoi denti bianchissimi e perfetti.
«Ah, è così?» Brontolai, facendo la finta offesa «Allora, probabilmente ho sbagliato pirata. Dovevo innamorarmi di quello biondo», dissi facendo riferimento a Sabo.
Ace si alzò con uno scatto, capovolgendo le nostre posizioni.
Ci guardammo divertiti da quel mini litigio che stavamo mettendo su, sapendo come sarebbe andata a finire.
«Ripetilo, se hai il coraggio», mi incitò lui con tono di sfida.
«Non mi fai paura Portgas. Ricorda che tra i due, sono io quella che ha il frutto più potente».
«Un semplice Paramisha non può competere con un Rogia, dolcezza. Dovresti averlo capito già da tempo. Posso letteralmente sciogliere qualsiasi oggetto o persona».
«Dimentichi una cosa, caro il mio pirata. Anch'io posso togliere la vita, se voglio».
Ci pensò un momento.
«In effetti, hai ragione».
«Quindi, ho vinto», ammisi soddisfatta.
Ace sorrise. «Non c'era niente in palio».
«Come no? E tutto questo discorso per cosa lo abbia fatto a fare?».
«Per niente», ammise lui, posando le sue labbra sulle mie in un dolce e intenso bacio.
«Quindi, che facciamo?» Chiesi, riferendomi ai nostri compagni.
Sospirò pensieroso. «Tu cosa vuoi fare?».
«Sinceramente, non lo so. Al momento ho le idee confuse».
«Siamo in due. Ma ti prometto che ci penserò su, anche se l'idea di non essere più un capitano, non mi va molto a genio».
«Sarai sempre un capitano, per me», dissi con tutto l'amore che potevo usare in quella frase.
Ace lo percepì come volevo e sorride soddisfatto.
«Direi che siamo apposto, allora».
Incollò di nuovo le sue labbra sulle mie, baciandomi appassionatamente.
Ora che era più tranquillo, sapevo cosa dovevo fare.
Non appena mangiato qualcosa, mi sarei diretta da Barbabianca e lo avrei affrontato una volta per tutte.
Mi doveva delle risposte, e quel giorno le avrei avute.
In quel momento, il mio stomaco brontolò.
«Credo sia arrivato il momento di mangiare qualcosa», ammisi affamata.
«In realtà... era il mio», ammise Ace per poi mettermi a ridere di gusto.
«Sei sempre il solito», brontolai per poi scoppiare a ridere con lui.

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