VIII

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Non aveva mai voluto diventare padre.

Ricordava gli anni della sua giovinezza a Godgrave: una città che sembrava dannata da sempre, ma a cui comunque ripensava con affetto, se gli capitava di riaffacciarsi ai ricordi.

«Da grande farò la rockstar» raccontava quando aveva appena otto anni. I genitori, tra le risate, gli raccomandavano: prima devi provare ad uscire da qui.

Uscire da lì? E perché mai?

Il giovane Robert Nicastro non capiva.

A sedici anni aveva fondato un suo gruppo: Katabasis, si chiamava. Ricordava ancora l'eccitazione vibrargli nei polsi quando colpiva con le sue bacchette la batteria, uno strumento di seconda mano rimediato in un locale abbandonato, che sarebbe, svariati anni dopo, diventato il Morgue.

La musica gli entrava nelle vene da più punti del corpo, in una continua diramazione che finiva con l'unirsi al centro del petto; lo definiva il suo secondo cuore, quell'immenso nucleo di onde sonore che pulsava dentro, per poi, in un'ultima, definitiva esplosione, entrargli nel cervello.

A sedici anni amava dichiarare platealmente «la musica è la mia droga», come qualsiasi adolescente felice.

Sembrava impossibile, ma a Godgrave era stato felice.

Aveva sognato di creare qualcosa di concreto, in quella città, insieme ai suoi compagni della band: tutti giovani come lui, tutti dal viso pulito e dalle speranze luminose.

I quattro membri dei Katabasis avevano tirato su una bella attività serale nel weekend. Ogni settimana suonavano in un seminterrato diverso che qualche loro coetaneo decideva di procurargli in cambio della promessa che "quelle serate lo avrebbero reso figo abbastanza da rimorchiare almeno cinque ragazze". Non quattro, non tre. Cinque.

Avere sedici anni poteva far tenerezza, a volte. 

Non fosse stata un'età così di merda.

Robert proseguì per tre anni la sua avventura musicale con i compagni; come nelle migliori storie d'amore, credeva sinceramente che sarebbe stato per sempre.

Tuttavia, l'erba infetta di Godgrave avvelenò il pozzo di entusiasmo a cui il gruppo attingeva per poter andare avanti unito: lentamente, uno alla volta, tre dei quattro petali della band appassirono. Il primo, Stephan, smise di credere alla storia della musica come unica droga, e passò ad affidarsi a quelle vere. Arcigne, letali, lo tennero rinchiuso tra le loro spine con estatiche promesse, fino a portarselo via. Lasciò il gruppo perché diceva di non possedere più la creatività per scrivere le canzoni, e in breve tempo perse anche se stesso. Robert, dieci anni dopo, lo avrebbe incrociato ai margini di Dunkle Straβe, mentre chiedeva soldi per l'autobus.

Erano bastati una manciata di secondi, di sguardi incidentalmente incrociati, per riconoscersi subito. Stephan lo aveva abbracciato, con trasporto e con un grande, nerissimo, sorriso. Ma dopo pochi convenevoli distratti prese a chiedergli: «amico mio, mi daresti un po' di spicci? Per l'autobus, sai».

Il secondo, Orazio, finì in galera a ventidue anni per aggressione. Robert non seppe mai com'era andata veramente; non era mai stato, prima di quel momento, un ragazzo violento. Nemmeno Orazio spiegò i motivi per cui aveva deciso di fracassare la testa a un tizio qualsiasi, un perfetto signor nessuno. Gli andò comunque bene, se così si può dire: il giovane che aveva colpito se la cavò per miracolo e senza danni collaterali.

Eppure Orazio non tornò a suonare con Robert. «Non mi interessa più quella roba», furono le ultime parole che rivolse all'amico, per poi sparire definitivamente nel nulla.

L'ultimo, Ilir, non ebbe nessun tragico destino. Il male che lo colpì non fu dettato da droghe o comportamenti antisociali, ma da una malattia subdola e traditrice.

CENERE A GODGRAVEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora