EPILOGO - Tre anni dopo - I

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Nella nuova città esistevano numerose linee della metropolitana, giganteschi ospedali, scuole più o meno efficienti, parcheggi mastodontici, cliniche psichiatriche e centri commerciali.

Nella nuova città si poteva fare colazione con Pain au chocolat, croissant pregni di burro e omelette bagnate nell'olio, accompagnando la profusa dolcezza a un cappuccino morbido e schiumoso o a un tè intenso.

Tutto profumava di pane e caffè espresso, la mattina, e di olezzo urinario, la sera.

Nella nuova città le forze di polizia, le ambulanze e i vigili del fuoco accorrevano il prima possibile, coerentemente con lo stato del traffico e il numero di emergenze.

Nella nuova città, tutto era monitorato: le telecamere sui marciapiedi, in corrispondenza di banche, supermercati e stazioni registravano i passi di anonimi avventori, in attesa del primo sgarro o atto di delinquenza.

Perché, nonostante fosse un posto diverso da Godgrave, lontano migliaia di chilometri e forse addirittura in un altro continente, anche nella nuova città potevano succedere cose molto brutte.

Rose Nicastro stava tornando a casa dopo una sconfortante giornata di lavoro.

Nulla era andato bene, quel giorno: la macchinetta del caffè dell'ufficio si era rotta, costringendola a dover chiedere un permesso per poter uscire dall'edificio in cui lavorava, recarsi al bar più vicino e godersi la sua unica, meritata fonte di energia. Non aveva ingerito niente per tutte le otto ore lavorative, a parte quel caffè, una bottiglia d'acqua e un pugno di mandorle.

Si sentiva trasandata e spossata, ed era positivamente sicura che l'aria della metropolitana contribuisse ad imbruttirla, a renderla grigia e colma di quell'odore stanco che accompagnava ogni treno, galleria e scala mobile.

Ad aggiungersi alla lunga lista di rotture, aveva discusso in modo molto piccato con una sua collega, più giovane di tre anni e presente nel suo team da poco più di sei mesi.

La giovane donna aveva avuto da ridire sul testo che Rose aveva preparato per la comunicazione promozionale per l'azienda di cui era diretta referente.

La collega, Anna, si era sentita in dovere di fare più di un appunto sul testo nel corso di tutta la settimana, a cui Rose aveva benevolmente dato credito, offrendosi di modificare i punti così come aveva proposto. Eppure, quel venerdì, Anna aveva inviato una nuova email, indirizzata non solo a lei ma anche ai capi, spiegando che reputava ci fossero ancora molti "problemi oggettivi" nella stesura della comunicazione, e che si offriva di affiancarla per mettere giù un testo più coerente.

A quel punto erano volate per telefono parole aspre e maligne, ricche di sottintesi che né all'una, né all'altra, erano piaciute particolarmente.

Rose sapeva benissimo di essere in quell'agenzia di comunicazione per due forti motivi: indubbiamente sapeva scrivere. Era sagace, pungente e andava molto bene nei copy più ironici e baldanzosi; la seconda ragione era la fama, sicuramente sbiadita, di cui godevano lei e il suo blog.

Poco prima di trasferirsi in pianta stabile nella nuova città, aveva aperto un blog che negli anni si era trasformato e compresso, diventando sempre più un profilo social ad uso di cellulare, abbandonando gradualmente quella sfilza di testi ormai troppo lunghi e pedanti per essere letti su un laptop.

Quel blog aveva avuto come unico e solo argomento proprio lei: la sua vita, i suoi peccati, i collegamenti alle interviste a cui si era sottoposta, i pensieri su se stessa e sul mondo che la circondava.

Grazie a quella finestra virtuale sul mondo, tutto il seguito che aveva inconsapevolmente raccolto durante il periodo di reclusione aveva trovato un punto unico in cui ritrovarsi e, soprattutto, comunicare con lei in modo diretto.

CENERE A GODGRAVEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora