6.

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Due giorni dopo.

È pomeriggio tardi, il cielo è di un colore talmente scuro e cupo da mettere tristezza.

Ho sempre odiato questo tempo. Non sono una persona che ama la tristezza o la depressione. Preferisco le belle giornate, il sole e sorridere.

Dopo aver studiato per quasi due ore, decido di uscire di casa per passeggiare un po', ho bisogno di una boccata d'aria.

Per fortuna ero già vestita e il trucco non era messo poi così male da non poter uscire. Così, prendo la mia giacca di pelle nera, il mio telefono, gli auricolari e scendo le scale.

«Mamma sto uscendo!» urlo.

Apro la porta, esco di casa e inizio a camminare, canticchiando la mia canzone preferita.

Le strade di Genova sono completamente deserte. Sembra quasi una città senza abitanti. A malapena passa qualche macchina o qualche ragazzo che cammina.

Tutta questa calma mi rilassa. È come se per un'attimo io fossi l'unica sulla terra, senza nessuno e senza nessun problema a cui badare.

Cammino, cammino e cammino, senza sapere dove andare.

Adoro le lunghe passeggiate, con un po' di vento nei capelli e la musica come sottofondo.

Quasi senza accorgermene, arrivo al mio "posto".

È un parco abbastanza piccolo, con pochi giochi e qualche panchina.

È un parchetto poco conosciuto, tutti i bimbi preferiscono i parchi più grandi e con mille giochi diversi.

Io, sin da piccola, ho preferito questo. Forse perché c'erano sempre pochi bambini ed era come se quel parco fosse solo mio e di quei pochi bimbi che tutt'ora incontro per strada.

Sospiro e mi siedo sull'altalena dal sedile verde chiaro. La mia altalena. È rimasta la stessa da anni.

Inizio a dondolarmi lentamente con le mie gambe, fissando il cielo ormai coperto interamente dalle nuvole che minacciano pioggia da un secondo all'altro. Ma non importa.

In pochi sanno di questo "mio posto". Non voglio che tutti sappiano dove trovarmi quando voglio stare sola.

A volte vengo qui non solo per stare un po' da sola, a volte vengo qui solo per schiarirmi le idee e pensare.

Stacco gli auricolari dal telefono e insieme ad esso, gli infilo nelle tasche del mio jeans blu.

Inizio a dondolarmi un po' più velocemente, ma senza dare quella spinta che piccola ti serve per "spiccare il volo".

Le mie mani tengono saldamente le corde dell'altalena che si muove con non troppa velocità e fisso le mie gambe esili, muoversi per spingermi sempre più in alto.

Chiudo gli occhi e mi fermo.

Dopo pochi minuti, sento delle mani poggiarsi sulle mie che tengono ancora le corde dell'altalena.

Le mani sono poggiate sulle mie, quasi intrecciate.

Non ho bisogno di voltarmi, so già chi è.

«Scusa..» sussurra una voce.

Il mio sbaglio più grande. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora