ᴄᴀᴘɪᴛᴏʟᴏ 2.
Quando la lezione termina, prendo l'auto per tornare a casa. Marilyn siede alla scrivania nel suo studio, gli occhiali cacciati sul naso, i capelli raccolti sulla nuca. Mi avvicino a lei per poterla salutare. Alza il mento, ricambiando il mio bacio. "Ti ho lasciato del pollo, devi solo riscaldarlo". Non rispondo e accendo il microonde intanto che vado a cambiarmi. Mentre mangio, mi godo la compagnia del silenzio. La tv è spenta, Marilyn indugia sul suo mattone polacco. Torna da me quando sto lavando i piatti. "Com'è andata la prima lezione?". "Dolorosa, come sempre". "Anche quest'anno hai trovato degli studenti inappagabili?". Strofino i piatti con la spugna, per poi riporli nella lavastoviglie. "No, anzi. Sono molto dotati. Hanno un buon curriculum, anche se non sono riuscito a vedere ancora nulla. Ma la strada è lunga, no? Ho appena iniziato". Marilyn mi afferra da dietro la schiena, avvolgendo le braccia intorno ai miei fianchi. "E che ne dici di quel lavoro nel mio studio? Ci servirebbe qualcuno con il tuo cervello". "Sai che non fa per me stare dietro ad una scrivania". Subito si sfila da me, tornando con le braccia lungo i fianchi. "Facevo una semplice constatazione. Torna pure al tuo lavoro da regista. Sarà di certo più appagante di un ottimo stipendio da consulente finanziario". Supera la porta per poi salire le scale con aggressività. Non mi meraviglio del suo cambio d'umore repentino. È sempre così tra noi, da almeno due anni.
Prima era tutto così semplice. Non litigavamo quasi mai. Le faceva piacere che io vivessi la mia passione per il teatro, adesso è contro ogni mia decisione. Quando finisco di asciugare i piatti, li dispongo nella credenza per poi spegnere la luce e salire in camera. Marilyn è già sprofondata nel cuscino. Niente più chiacchierate prima di andare a dormire, niente più rapporti sessuali o dimostrazioni d'affetto. Appena mi metto a letto, non vedo l'ora che sia il giorno seguente per poter uscire di casa. Per fortuna che non ci sto quasi mai. Io e Marilyn ci vediamo solo in serata, all'ora di cena e nemmeno ceniamo insieme. Al mattino, scosto le lenzuola portandomi le mani sul viso. Lei è già andata via, e mi ha lasciato un post-it sul frigo. "Torno domani sera dalla conferenza, non mi aspettare. Ti chiamo quando arrivo a Phoenix". Accartoccio il biglietto, buttandolo nella spazzatura. Mi faccio un caffè e mi vesto per poi uscire in fretta. Il teatro in cui pratico le lezioni, è chiuso da qualche anno. L'ho preso in affitto per poter gestire meglio la mia attività. Non sarebbe stato così teatrale ospitare gli attori nel soggiorno di casa mia. Nell'attesa di riceverli, siedo alla mia scrivania pensando a quale musical mettere in scena. Ho sempre voluto scrivere uno spettacolo teatrale, ma penso che ci vorranno degli anni. Quando sento la porta dell'ingresso sbattere, osservo l'orologio che ho al polso. "Il teatro è chiuso al pubblico" urlo, guardando verso il corridoio. Tra le sedie scorgo una figura indistinta. "Chi è lì?". La ragazza bionda del giorno prima avanza verso il palco. "Le ho detto che i casting sono chiusi". "Lo so, l'ho sentita ma non mi ha dato una possibilità. Non mi conosce, perciò le farò vedere che cosa so fare". Nella mano destra porta un vecchio stereo. Imposta una canzone per poi poggiarlo sul pavimento. Riconosco immediatamente il brano delle The Ronettes.
La ragazza danza sulle note di Be my baby da Dirty Dancing. Scuote i fianchi, la testa. All'improvviso fa una ruota che la fa arrivare sotto alle scale. Sale sul palcoscenico, avvicinandosi a me. La vedo muoversi su e giù come una farfalla. Si comporta come se il palco fosse tutto il suo mondo. È libera, felice, spensierata. La canzone termina con lei in ginocchio sul pavimento, le braccia alzate. "Sei brava, sì. Ma hai sbagliato posto. Qui non facciamo casting per Grease. Qui insegniamo recitazione". Lei si rimette in piedi, venendomi incontro. "Lo so. Questo piccolo spettacolo era per farle capire che posso mettere in scena qualsiasi cosa. Mi creda, se mi dovesse prendere nel suo corso, non se ne pentirà". I suoi occhi di ghiaccio mi implorano. "Il teatro accetta un massimo di sei persone". "Credo possano fare un'eccezione per un settimo membro dotato, e che può pagare per la sua presenza". Mi porge un assegno di cinquemila dollari. "Cosa sono?". "So che lei ha affittato il teatro. Deve essere piuttosto difficile pagare un posto che non ha spettatori da due anni". "Mi sta comprando?". Sgrana gli occhi. "No, certo che no. Sto aiutando un collega, appassionato di teatro quanto me, a rendere il suo sogno realizzabile". Stringo l'assegno tra le dita, nel contempo la osservo. Sì, ha la stoffa di una vera attrice ed è di certo dotata. "Va bene. Ti do una possibilità. Se alla fine del mese cambierò idea, tu non potrai opporti alla mia scelta di mandarti via. Chiaro?". Mi sorride, commossa. Prima di andare via, mi porge la mano. "Mi chiamo Adele, comunque. Ci rivediamo stasera". Cammina felice verso l'uscita, riprendendo tra le mani il suo stereo. Mi ritrovo a sorridere. Non incasso l'assegno. Non posso accettare dei soldi così. Lo custodisco da qualche parte, per poi andare a pranzo.
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𝐔𝐧𝐧𝐚𝐦𝐞𝐝 | 𝐒𝐞𝐛𝐚𝐬𝐭𝐢𝐚𝐧 𝐒𝐭𝐚𝐧
General FictionUn insegnante di teatro, dedica tutto sé stesso al palcoscenico, tentando di far affiorare nei suoi studenti la stessa passione che ha portato lui fin lì. Ha un sogno nel cassetto: debuttare a Broadway. Nel frattempo, instaura un rapporto con ognuno...