3 - Sospirare

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«Brava come al solito, Aurora». Alzai il lato destro del labbro in direzione di Sergio. Ero tranquilla con lui, mi trasmetteva calma e serenità. I suoi modi erano gentili ed affettuosi, mi ricordava mio padre, quando stava ancora bene.
Stavo lavando i piatti, Deborah era poco più in là che li impilava. Cinguettava con Andrea, lei riusciva ad andare d'accordo con tutti, tranne che con me. Sapevo che mi sarebbe piaciuto essere sua amica, ma sembrava che per lei fosse impossibile.

Mi tolsi il grembiule ed il cerchietto. Piegai gli abiti e li lasciai nel mio armadietto di metallo. Respirai a fondo e controllai l'orologio. Sollevai la catenina spessa ed afferrai il ciondolo. Tra le crepe del quadrante di vetro intravidi le lancette rovinate, segnavano le sei di sera. Il mio turno era terminato, avrei lasciato il resto a Deborah.
Sollevai la mia borsa da terra, mi annodai la leggera sciarpa attorno al collo e mi avvicinai all'uscita.

Sentii Sergio dirmi dalla cucina: «Stai attenta». La sua espressione era seriamente preoccupata. Era davvero l'unico che mi avesse presa in simpatia, la cosa mi sembrava strana ed assurda allo stesso tempo. Vivevo il mio rapporto con lui con la costante preoccupazione di vederlo storcere il naso come facevano tutti gli altri, di fronte ad un mio messaggio scritto sul taccuino. Come un randagio incredulo nel vedere una mano gentile, avevo il terrore che la carezza potesse diventare uno schiaffo.

Gli feci un cenno e le mie guance si imporporarono.
Anche Adriano stava andando via. Aprì la porta prima che potessi farlo io, mi fece un cenno e passai avanti. Guardava il marciapiede.
Lui sarebbe andato a destra, io invece a sinistra. Alzai con lentezza la mano e la scossi, facendogli intendere che stavamo per dividerci e che lo stavo salutando. Lui borbottò qualcosa e mi voltò le spalle. Rimasi a guardare la sua schiena incurvata in avanti, che si allontanava.
Avrà avuto qualche anno in più di me, aveva i capelli scuri, il colore degli occhi era un mistero, perché al mio passaggio erano sempre abbassati.

Mi sgranchii i polsi ed andai per la mia strada. Non avrei preso ancora la metro, abitavo poco lontano, prenderla la mattina era una vera tortura. Eppure ne valeva la pena.

Quando potei lasciare la casa famiglia ricevetti del denaro che mio padre era stato costretto a darmi. Quel denaro fu l'unico ed ultimo contatto che ebbi con quell'uomo. Non lo andai mai a trovare in carcere, preferii pensare che fosse morto anche lui, assieme al resto della mia famiglia.
Non erano molti, ma potei prendere in affitto un piccolo monolocale.
Avevo le idee ben chiare, sarei diventata la vicina di casa di Zeno. Avevo sempre pensato ad una possibilità del genere, durante le mie lunghe notti insonni. Notti in bianco nutrite da un'ossessione devastante.
Ero riuscita a realizzare quel progetto, in un modo o in un altro. Quel minuscolo appartamento non mi chiedeva troppe spese, l'affitto non era altissimo e questo mi permetteva di mettere da parte qualche spiccio in più ogni mese. 
Era la mia casa, mia e di Giotto, sebbene anche qui ancora non riuscissi a parlare.

Aprii il portone cigolante e salii le scale del condominio con passo pesante. Non avrei potuto desiderare posto più bello, un monolocale con vista.
Inserii la chiave nella serratura. Sentii un miagolio lontano e sorrisi.

Eccomi, Giotto, arrivo. 

Diedi uno scossone alla porta incastrata. Entrai e la snella figura nera mi accolse. Posai la borsa a terra ed accarezzai il musetto del gatto.

Giotto era il grande uomo della mia vita, l'unico ad essermi stato sempre accanto nei lunghi anni della casa famiglia.
Lo presi in braccio e questo si lamentò per il dolore. Era vecchio e tremante. Spesso, guardandolo in quello stato mi salivano le lacrime agli occhi. Non potevo immaginare una vita senza di lui, senza il mio peluche vivente, senza il perno fermo della mia esistenza.
Fu il piccolo angelo custode che mi lasciò mia sorella prima di morire. Il piccolo gatto, quindici anni prima, le era stato regalato da nostra madre.

Lanciai un'occhiata all'abitacolo. Il cucinino era sistemato sulla destra, il materasso a due piazze, poggiato a terra, che avevo trovato ad un mercatino dell'usato, era sotterrato dalle coperte e dai vestiti sporchi. Mi lasciai cadere su questi, tenendo stretto l'animale. Cominciò a fare le fusa ed io lo poggiai con delicatezza sul cuscino. Gli occhi verdi erano opachi e cisposi, il pelo nero, un tempo tanto lucido, ora era più ispido e spento.

Ricordai il pomeriggio in cui nostra madre tornò a casa portando con sé una scatola di scarpe. Avevo appena sette anni. La scena, impressa nella mia mente, aveva una prospettiva molto bizzarra, molto bassa.
Ricordavo di vedere le gambe lunghe della donna che spesso avevo paura di dimenticare, ma di non riuscire a capire cosa tenesse all'interno del contenitore.
Vedevo solamente il fondo bianco del contenitore e sentivo dei rumori curiosi, come dei sottili pigolii. Mia sorella era più grande, mi sembrava tremendamente alta, il suo viso così maturo... lei comprese immediatamente.
Come avrebbe potuto non farlo? Era almeno un anno che chiedeva il permesso ai nostri genitori perché le prendessero un animale.
Lei, da quel che ricordavo, in realtà, avrebbe voluto un cane. «L'ho trovato sul ciglio della strada, non ho potuto non prenderlo»: aveva detto nostra madre.

Socchiusi gli occhi, tornando al presente. Deglutii e la gola cominciò a farmi male.
Avrei voluto piangere, forse? Sentivo i nervi irrigidirsi, il respiro accelerare. Incredibile come anche una semplice rimembranza sfocata mi facesse salire la lacrime agli occhi, immaginavo che non si sarebbero mai seccate.
Quei ricordi mi prendevano ogni volta che guardavo gli occhi grandi di Giotto.

Ero stata gelosa di mia sorella, inizialmente, ma lei non era una bambina egoista. Mi disse che avremmo deciso il nome assieme, che ci saremmo prese di cura di lui assieme. Che sarebbe stato nostro.
Disse tante cose che purtroppo non riuscivo più a mettere a fuoco.

Giotto avvicinò il muso al mio viso e sentii più intensamente le sue fusa.
Aveva un piccolo cerchio di pelo grigio sul ventre. Decidemmo di chiamarlo a quel modo, perché, a nostro dire, quello era il tondo perfetto del famoso pittore.
Da quando decidemmo il suo nome, passò un mese, o forse meno. Tutto era molto confuso nella mia testa, era difficile ricordare quando non ne avevo davvero il desiderio, quando mi impegnavo di più a seppellire ogni cosa con costanza invidiabile, piuttosto che sforzarmi per far riaffiorare i fatti accaduti.

La gola continuava a dolermi.
Mia sorella mi lasciò quel piccolo angelo, quando se ne andò.
Divenni la bambina con il gatto nero, quando mi mandarono nella casa famiglia. Nessuno riuscì mai a separarmene, lo portavano via e lui tornava da me. Per tutti quegli anni, per tutto quel tempo, lui rimase con me, per sempre.

 Per tutti quegli anni, per tutto quel tempo, lui rimase con me, per sempre

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Nota autrice: E viene così introdotto il "personaggio" di Giotto.
Non fatevi fregare dalla sola apparenza di questo vecchio gattone, nasconde tanti segreti che verranno svelati anche molto più avanti nella storia.

Anche a voi piacciono i mici? O ve li fareste volentieri allo spiedo?

Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora