4 - Immaginare

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Giotto era il mio angelo custode, colui che mi aveva sempre dato l'affetto mancante di mia sorella e mia madre, la figura dolce che ricercavo nelle notti colme di incubi, il mio miglior ascoltatore. Il nero era il mio colore preferito.

Zeno era, semplicemente, il mio scoglio: era il pensiero quotidiano che mi ricordava d'essere viva; era colui che col suo sguardo smuoveva quel mio cuore sempre fermo; era la speranza che mandava avanti la mia sopravvivenza; era l'illusione d'essere normale; era colui che amavo.
Era un amore a senso unico il mio, ma mi faceva stare bene, dava un senso a ciò che ero. Era la mia costante ed assillante fissazione.

Mi stesi supina e deglutii. La catenina fredda dell'orologio mi cingeva il collo.
Avrei dovuto cenare, non avevo avuto il tempo di mangiare ancora nulla. Mi alzai barcollante e mi diressi verso il piccolo frigo. L'odore del tonno aperto, del cibo di Giotto e di quelle uova andate a male mi diedero il voltastomaco. Mi trattenni dal vomitare. Presi la ciotola del gatto e la riempii, lui mi venne incontro. La poggiai per terra e riflettei su quello che avrei dovuto preparare per me.
Sarei dovuta andare a fare la spesa, me ne ero dimenticata. Ci sarei andata il giorno successivo.

Presi il formaggio spalmabile e qualche pezzo di pane secco dal cassetto.
Era quasi il momento, controllai ancora l'orologio. Mi avvicinai alla finestra, scostai le tende pesanti e mi sedetti sul davanzale.
L'aria fresca nella sera ed il cielo tinto di rosso mi fecero rilassare. Sbocconcellai il mio umile pasto e respirai a fondo.
La stanchezza della giornata, poco a poco, mi scivolò addosso. Era un mercoledì sera, un solito mercoledì.
Sentii dei rumori ed abbassai lo sguardo. Era arrivato. Sorrisi e continuai a mangiare.
Sotto di me, oltre ad un balcone di una piccola casa unifamiliare di fronte al mio condominio, c'era la camera di Zeno. Fu per quel motivo che scelsi proprio quel monolocale, quando venni a vivere lì. Aveva una vista mozzafiato.

Viveva con suo padre ed ogni sera della settimana, escludendo il sabato, la domenica ed il lunedì, apriva la grande finestra che dava sul balcone e si metteva a leggere. Avvicinava la lampada, si sistemava sulla poltrona, apriva ogni sette giorni un libro diverso e per almeno due ore se ne stava lì.
Solitamente cambiava d'abito ed indossava un paio di jeans scoloriti ed una maglietta ampia. Io cenavo così, in bilico sul cornicione, guardandolo e pensando. Non poteva vedermi, a meno che non avesse alzato lo sguardo, ma restava sempre chino a fissare le pagine del libro.
Non ero mai riuscita a vedere suo padre, sbirciando dalla finestra. Supponevo che lavorasse fino a tardi.

Mi accarezzai i lunghi e lisci capelli neri. Era veramente bellissimo. Più passava il tempo e più mi stupivo di come cambiasse, di come crescesse. Ormai era un uomo, adulto quanto lo ero io.
I capelli gli arrivavano sotto alla nuca, erano mossi e curve ondulate ricreavano le linee invisibili del vento. Il colore mi ricordava il cioccolato.
Rammentavo un momento particolare, quando mi soffermavo sui suoi capelli: risaliva ai tempi in cui frequentavamo il liceo, era il secondo o terzo anno. In tutto quel tempo ci eravamo sempre ritrovati nello stesso edificio scolastico, ma mai nella stessa classe.

Ero poggiata ad una parete e scrutavo la lunga fila al distributore delle bevande calde, in attesa che diminuisse. Volevo una cioccolata.
Zeno era da qualche parte con i suoi amici: lui era sempre in gruppo, un ruolo fisso nel branco, ma sicuramente quello con la risata più bella.
Non lo avevo mai avvicinato troppo, mantenevo una giusta distanza di sicurezza.
Che agrodolce, bruciante e saporita ossessione che era la mia. Quanti sguardi a senso unico che gli avevo dedicato e che continuavo a lanciargli; quanti sospiri, quanti mugolii.
Quando casualmente, passando in zone limitrofe alla sua, sentivo qualche sprazzo di una sua conversazione o risata, io, senza mezzi termini, ne traevo piacere. Ero scossa dalla nostalgia, ma cercando di scacciarla mi soffermavo su quel suono lascivo. Una situazione imbarazzante, ridicola forse, ma la sua stessa esistenza mi regalava un tiepido calore.
Era come se vivessi in corrispondenza del suo respiro.

Quella mattina ero ancora lì, su quel muro giallo, guardando le persone, ma con troppa poca attenzione, perché non mi resi conto del suo arrivo. Mi affiancò, si posò a quella mia stessa parete.
Sobbalzai.
Mai eravamo stati così vicini, mai avevo avuto l'opportunità di osservarlo così bene. Non che stessimo propriamente attaccati, anzi, circa mezzo metro ci separava, ma eravamo lì, così vicini che avrei potuto sentire il suo profumo. E provai davvero a coglierlo.
Lui era in attesa di un suo amico, in fila per prendere qualcosa di caldo. Digitava qualcosa su un vecchio cellulare, sentivo il ticchettio dei tasti. Non potevo voltarmi troppo, o mi avrebbe notata. Mi limitai a scrutarlo con la coda dell'occhio.
Inspirai a fondo, nel tentativo di riconoscere il suo profumo in quel caos d'odori più o meno piacevoli. Venni più volte ferita alle narici dall'amaro del caffè, ma non ci misi troppo ad individuarlo: pino silvestre.
Era così buono che fui costretta a schiudere le labbra sospirando.

«Ecco. Hai mica una sigaretta? Così l'amplesso è completo». Il ragazzo che Zeno stava aspettando aveva finito ed io lo maledissi. Gli sorrideva e tra le mani teneva un caffè.
Zeno si staccò dalla parete, ruppe il nostro indiretto contatto e prese a camminare con lui verso l'uscita: «E con questa fanno tre sigarette di credito».
Mi dava le spalle, i suoi capelli erano già lunghi, morbidi come onde di cioccolato fuso. Rimasi a fissare la sua nuca, protendendomi leggermente in avanti, come trascinata da un filo invisibile che si era andato legando tra di noi.
Quel profumo ancora persisteva ed io continuavo a fissare quei capelli: desideravo con tutta me stessa spingermi oltre, corrergli dietro, afferrarlo, incastrare le mie dita in quella morbidezza e sì, baciarlo.
Scomparve presto dall'uscita che portava nel cortile.

Tornai alla realtà. Mi scappò un sorriso imbarazzato a quel ricordo.

Sbadigliai, ero già stanca, ma avrei aspettato ancora un po' prima di coricarmi.
Allungai un braccio verso il terreno ed afferrai il grosso cuscino arancione. Mi sistemai meglio sul cornicione ed aprii la federa. Ne sfilai un grosso taccuino ed una penna. Era il mio diario, dove ogni sera appuntavo la mia giornata. Non accadeva mai nulla di eclatante, nulla che valesse la pena d'essere raccontato, ma questo, assieme al mio orologio, mi permettevano di comprendere il tempo. Per una bambina come me era necessario. Per una bambina che aveva sempre aspettato, non poteva essere altrimenti.
Avevo bisogno di tenere il conto, di scandire i secondi, i minuti, di programmare ogni cosa, d'avere sotto un diretto controllo il mio intero microcosmo.
Ero strana, ma non avevo potuto evitare di esserlo.

Appuntai i pochi eventi del giorno, erano sempre gli stessi e si ripetevano all'infinito, sulle pagine ingiallite del diario.
Controllai Zeno, stava spegnendo la luce, anche lui ora sarebbe andato a dormire. Chiusi la finestra e mi stesi sul materasso.
Sbadigliai ancora.


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Nota autrice: Sono forse solo io a considerare "l'amore" di Aurora un pelo inquietante? Troppo ossessionato, o no?
Troppo malato?

Io direi di sì, ma voi che ne pensate?

Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora