2 - Aspettare

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«Aurora! Le uova!».
Che schifo. 

Perché la gente doveva ordinare le uova la mattina alle nove e mezza?
Con un conato di vomito presi il piatto fumante e lo portai al tavolo di un tipo con un cappello grigio.

«Aurora! Il caffè!». Possibile che dovessero sempre urlare?
Lanciai un'occhiata impassibile a Sergio, il capo cuoco, che, da dietro lo spesso vetro trasparente, stava friggendo altre uova. Andai verso il bancone e scrutai il viso di Adriano, l'addetto al bar. Mi porse il piattino con la piccola tazzina: «Tavolo tre». Non risposi ed obbedii.
Aveva abbassato lo sguardo piuttosto che guardarmi, lo faceva sempre. Il mio viso doveva avere qualcosa di molto poco piacevole.
Istintivamente mi toccai una guancia, mi ero forse dimenticata il trucco della sera precedente? Ma io non mi truccavo mai. Forse mi ero sporcata con la marmellata. Controllai tastandomi con i polpastrelli, ma mi sembrò essere tutto a posto.
Sistemai il caffè al tavolo e mi sforzai di sorridere al cliente, ma non feci altro che arrossire. Sospirai.

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Continuai l'andirivieni per l'intera mattinata, fino a quando non fu il momento di apparecchiare per i clienti del pranzo.

La mia uniforme era terribile: una camicia bianca ed una gonna nera un po' troppo corta. Sebbene facesse caldo mi ostinavo a mettermi delle calze invernali, molto scure, per coprire la nudità. In testa ero costretta a mettere un fastidioso cerchietto bianco pieno di ricami e fronzoli.

Dalle grandi vetrate accanto ai tavoli un piccolo raggio di sole colpiva una porzione del tavolo che stavo sistemando. Sistemai con cura le stoviglie.

«Aurora, aiutami a lavare i bicchieri». Alzai lo sguardo e mi diressi verso le cucine. Era Sergio ad avermi chiamata. Aveva le braccia immerse fino ai gomiti. Andrea, il lavapiatti, assunto solamente per il periodo estivo, era occupato a tagliuzzare gli ingredienti più richiesti.
Mi arrotolai le maniche per bene, presi dei guanti gialli e con energia cominciai a lavare i bicchieri. Sergio era più gentile di Adriano, che mi guardava di traverso e mai negli occhi. Il primo aveva circa trent'anni, credevo, non glielo avevo mai chiesto.
Io non parlavo molto, anzi, per niente.

«Attenta, quello è rimasto macchiato». Annuii senza proferire parola e mi concentrai sulla stoviglia che mi aveva indicato. Mi sfuggì uno sbuffo. Mi sorrise: «Sei già stanca?». Scossi la testa. Odiavo solo avere quei fastidiosi guanti di gomma, sentire la pelle umida e raggrinzita. L'odore del detersivo mi pizzicava il naso.

Mancava poco, era quasi mezzogiorno. Sarebbero presto arrivati i clienti del pranzo e questo significava che lo avrei rivisto.
Ricordavo il giorno in cui lo avevo notato seduto a questa tavola calda, stava mangiando un'insalata. Aspettai che se ne andasse per avvicinarmi e leggere il cartello: "Cercasi cameriera".
Mister Eth, il capo, mi aveva assunta dopo il consueto mese di prova, ma dubitavo che lo avesse fatto perché ne ero meritevole.

Usava spesso, infatti, trattarmi come vanto: quando si presentava qualche critico, qualche giornalista, qualche politico, non perdeva occasione d'uscire dal suo ufficio, richiamarmi e mostrarmi ai clienti come fossi un trofeo. Le sue parole mi risuonavano nelle orecchie: «Vi presento Aurora, l'orfana che ho deciso di assumere. Scusatela, non può rispondervi, è muta».

«Sono arrivata!»: sentii canticchiare. Storsi il naso, fantastico. Lasciai che i pensieri scorressero via e mi voltai. Deborah si affacciò per salutarci, anzi, per salutarli: «Ciao, Sergio. Ciao, Andrea». Posò lo sguardo su di me per poco meno di due secondi e poi uscì. «Ciao Adriano. Come stai?».
Sospirai, come sempre. Non le avrei potuto rispondere, ma le avrei potuto fare un cenno di saluto, ci avrei provato. Eppure sembrava che mi detestasse, non ne capivo il motivo, come ancora non comprendevo qualunque cosa mi circondasse.
Sergio mi passò un calice trasparente: «Non prendertela». Feci le spallucce. Non avevamo mai avuto una sorta di contatto, non le avevo mai scritto nulla sul mio taccuino, ma, dai miei primi giorni di prova, due anni prima, non mi poté mai sopportare.
Mi giustificavo dicendomi che l'antipatia nasceva anche a pelle. Evidentemente non le ispiravo simpatia.

«Cominciano ad arrivare i clienti. Meglio che tu vada in sala ad accoglierli»: mi disse Sergio. Mi tolsi frettolosamente i guanti e mi sistemai il grembiule. Feci accomodare una coppia mentre mi guardavo spasmodicamente attorno.

Era quasi l'ora, non tardava mai più di tanto. Sollevai il ciondolo che portavo al collo. Era un orologio, fissai il quadrante rotto e percorso da crepe.

«Prego, siediti dove preferisci. Conosci i posti meglio di me ormai»: disse Deborah.
Eccolo! 

Zeno era arrivato, come al solito aveva scelto il tavolo più lontano dall'entrata, sul ciglio del marciapiede. Si sistemò poggiando la borsa della sua macchinetta fotografica su una sedia vicina e prese il menù tra le mani. Non gli serviva, ormai lo sapeva a memoria. Infatti lo posò dopo pochi secondi e cercò la cameriera con lo sguardo.
Deborah era lontana, prendeva altre ordinazioni. Sarei voluta andare io, sebbene il solo pensiero mi facesse smettere di respirare. Anche se non avessi avuto quella terribile paura a bloccarmi, non l'avrei potuto ugualmente fare. Io dovevo occuparmi dei tavoli all'interno, come facevo da quei due anni, e lui si ostinava a scegliere quel tavolo all'esterno.

Afferrai il mio taccuino e mostrai la frase che vi avevo scritto ai clienti a cui mi ero avvicinata: "Posso prendere le vostre ordinazioni?". Questi mi guardarono di traverso, ma non appena compresero, mi sorrisero.
Odiavo quello sguardo, quegli occhi commiserevoli, quel garbo così ovattato. Era come non riuscire mai a crescere, non essere mai presi sul serio.
Mi sfuggì un lieve sbuffo che nascosi il più possibile. Se avessi voluto avrei potuto parlare, pensavo, ma mi convincevo di non averne bisogno.

Portai l'ordinazione nelle cucine e ripresi i miei giri. Controllai Zeno, stava guardando la strada, aveva il viso poggiato su una mano. Respirai a fondo, il mio cuore si rilassò.

«Cameriera!». Mi voltai rapidamente e ripresi a lavorare. Mostrai ai clienti che mi avevano chiamata un messaggio di scuse ed immediatamente appuntai i piatti scelti.

Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora