5 - Nascondere

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Le patatine sono in offerta!

Mi guardai attorno dubbiosa. Nessuno stava prestando attenzione a me, bene. Ne afferrai tre pacchi e le tirai nel carrello. Quella sera avrei festeggiato con Giotto. Snack ed ottima acqua naturale del rubinetto.
Pesai i pomodori infilando il pollice sotto alla bilancia in modo che il prezzo scendesse.
Non era proprio onesto e non ne andavo particolarmente fiera, ma volevo comprare un divano, magari un'aspirapolvere: oggetti che una casa normale avrebbe avuto. Sicuramente i trenta centesimi in meno dei pomodori non avrebbero influito molto, ma ormai era diventato un vizio.

Erano le sette di sera, ma nel supermercato c'era ancora un modesto movimento di persone.
La giornata lavorativa non aveva riportato avvenimenti particolarmente significativi.
Mi ero stupita del fatto che nessuno avesse ordinato le uova per colazione. Era qualcosa che sicuramente avrei appuntato nel mio diario quella sera.

Mi immobilizzai di fronte a quel corridoio. Un uomo aveva fatto cadere accidentalmente una bottiglia di vino rosso e questo stava scivolando lento a terra, come viscoso sangue.
Guidato da chissà quale lieve dislivello, il liquido rosso arrivò ai miei piedi. Mi tremarono le ginocchia, i ricordi mi inondarono la testa come un fiume d'acqua in una bocca aperta.
Ansimai ed indietreggiai tenendo stretta a me la borsa ed il carrello. Mi portai una mano alle labbra e soffocai un conato. Il toast tiepido che avevo ingurgitato frettolosamente quel pomeriggio mi stava tornando su.
Mi concentrai su qualcos'altro e fissai attonita il banco delle verdure. Le mie narici si riempirono dell'odore dolciastro del sangue. Era solo un ricordo, ma riuscivo ancora a sentirlo.

Era sera, il sole era appena tramontato. Ero tornata da scuola con mia madre, quel pomeriggio c'era stato un colloquio con la maestra. Io avevo aspettato fuori, mentre lei parlava.
Quando terminò ed uscì aveva le lacrime agli occhi, mi strinse forte e disse di volermi bene. «Anche io, mamma, te ne voglio tanto». Quella fu l'ultima cosa che dissi in tutta la mia vita.

Quando aprì la porta di casa, ed io sgattaiolai dentro, vidi mio padre seduto al tavolo della cucina con un bicchiere vuoto ed una bottiglia tra le mani. Lo salutai con un gesto, non mi guardò neppure.
Si rivolse verso mia madre: «Cos'ha detto l'insegnante?». Io smisi di ascoltarli e mi avvicinai al lavandino per prendere un bicchiere d'acqua. Mi misi in punta di piedi per raggiungere il rubinetto.
Passarono pochi minuti e poi sentii il rumore trascinato della sedia che si scostava.

Quella sera, l'uomo che mi piaceva ancora definire come padre, si era alzato lentamente dalla tavola. Aveva afferrato la bottiglia e l'aveva rotta sul tavolo.
«Perché non parli? Aurora, rispondimi! Perché non parli?!».
Vidi rosso, tanto rosso e chiusi gli occhi.

Boccheggiai soffocata dall'impatto di quel ricordo e mi guardai attorno spaventata. Mi trovavo di nuovo nel supermercato, ero riuscita ad uscire da quei pensieri melmosi.
Lasciai perdere la spesa e corsi via stringendo forte l'orologio al petto.

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Ero seduta in un angolo del mio monolocale. Mi ero svestita. Ero rannicchiata e tenevo il viso poggiato sulle ginocchia. Il mio cuore batteva lento, anche oggi non avrei mangiato nulla di buono. Giotto era sdraiato al mio fianco, le sue fusa irregolari mi cullarono.

La verità era una e molto semplice: non stavo bene.
Potevo fingere, potevo far credere agli altri e a me stessa d'essere contenta della mia vita. Potevo sorridere, illudermi che mi sarebbe sempre bastato quello che avevo: un gatto, un orologio e una folle ossessione amorosa per un ragazzo, ma se così fosse stato avrei parlato, avrei trovato il coraggio per farlo.
Non potevo cancellare ciò che avevo passato e non l'avrei superato, non in questo modo, convincendomi d'averlo già fatto.

Mio padre era un assassino. Aveva tentato d'uccidere me ed invece quelle che avevano perso la vita erano state mia madre e mia sorella. La prima indossava questa catenina al collo, questo orologio. L'aveva strangolata. Mia sorella fu ripetutamente trafitta con i vetri della bottiglia.

Era stata tutta colpa mia: soffrivo di mutismo selettivo, un disturbo psicologico che mi impediva di parlare al di fuori del contesto familiare. Avevo passato i primi anni della mia vita in silenzio, non appena varcavo la porta di casa la mia voce si spegneva.
Mio padre quell'ultimo periodo era sempre più nervoso ed angosciato. Non lo capivo ancora, ma era a causa mia.
Me lo dissero spesso i bambini della casa famiglia: «Perché pensi che tuo padre sia impazzito? Sei stata una pessima figlia».

Ripensandoci ora supposi non dovesse essere stato facile prendersi cura di me. Sicuramente dalla scuola arrivarono delle lamentele: non ero davvero muta, il mio era solo un blocco psicologico, non era considerato come una malattia, quindi dovevo parlare.
Molti non riuscivano a capacitarsi di come una bambina potesse, ma non riuscisse a proferire parola. Questo provocava scatti di nervosismo da parte delle persone che avevo attorno, alzavano la voce, iniziavano ad urlare, mi intimavano di rispondere. Non si rendevano conto che in questo modo non facevano altro che peggiorare la situazione. Nessuno mi giustificò mai, non la mia maestra, non mio padre.
Il mio mutismo selettivo era provocato dal continuo disagio che provavo nei confronti di me stessa e del resto del mondo. Arrabbiandosi con me non fecero che aumentare quella sensazione, facendomi sentire sempre troppo scomoda in un mondo dove il silenzio non sembrava essere contemplato.

Il mio divenne un silenzio assoluto, non aprii mai più le labbra per parlare, non dopo quella sera, non dopo che lui distrusse la nostra famiglia. Lo arrestarono, mi spedirono in una casa famiglia. Mi fecero incontrare decine di psicologi diversi, ma io non ascoltai mai nulla al di fuori del monotono ronzio dei miei pensieri. Fu come diventare anche sorda, senza la voglia di farsi aiutare, senza la voglia di cambiare, di crescere.
Aveva distrutto il mio contesto familiare, l'unico posto al mondo dove avevo avuto il coraggio di parlare. Ed ora, che non mi sentivo mai a casa, la mia bocca si era come sigillata. Ero diventata una muta con una voce sotterrata da troppi pensieri di piombo.

Mi attaccai al desiderio morboso di Zeno, perché avevo bisogno di qualcosa che mi facesse sentire normale. Lo osservavo e se mi guardava mi voltavo; lo pensavo ed in questo modo tenevo occupata la mia mente nostalgica; lo ascoltavo parlare con il resto del mondo e la sua voce non mi faceva sentire la mancanza della mia, ormai perduta per sempre. Mi soffermavo a bearmi di quel suono, quando tra i corridoi della scuola restava a parlare con i suoi amici. Mi tenevo in disparte, lontana abbastanza da non farmi notare, ma abbastanza vicina da cogliere le sue parole.
Per una muta le voci erano il nettare proibito, il dolce dondolio di qualcosa di irraggiungibile. Sentire la sua era come essere percorsi da un gelido brivido lungo la schiena. Era bassa, profonda, una carezza calda sul viso, un abbraccio inaspettato, il gemito soffocato di una voglia nascosta. Era vibrante, bollente. Un sorso d'acqua che infuocava il corpo.

La mia non la ricordavo più.


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Nota autrice: E con questo breve capitolo chiudiamo l'introduzione. Le cose inizieranno a smuoversi a brevissimo!

Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora