57 - Controllare

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Quando mi risvegliai ebbi poco tempo per piangere il mio personale ed incomprensibile lutto, venni travolta nel giro di pochi e troppo rapidi giorni in un uragano implacabile.

Iniziai a spostarmi in giro per sale di tribunali, uffici di avvocati, reparti d'ospedale, passando da traumatologia a psichiatria in poche settimane.

Mi fu chiesto di rispondere a centinaia di domande, cosa che mi fu piuttosto difficile considerato il mio stato di muta mai realmente superato.

Dovetti fare nuovamente  i conti con la paura d'aprir bocca non appena mi arrivò la prima interrogativa. Fu un "Come stai?" gettato lì, detto da quell'uomo seduto al fianco del mio letto.

Fu quasi bello pensare di aver avuto l'abitudine di parlare per un breve ed immaginario periodo della mia vita, d'aver ritrovato una voce in realtà ancora perduta.
Me ne resi conto quando schiusi leggermente le labbra, nel tentativo di rispondergli. Ma mi accorsi a quel punto di come Nathan non avesse mentito su nulla, quando -nel tentativo di dar fiato ad un secco ed ironico: "Alla grande"- non trovai neppure un filo di forza per farlo.

Non capivo cosa mi bloccasse ancora, perché il mio mutismo non si potesse smuovere, cosa non andasse in me. Avevo creduto di potermi capire, quando in realtà ero molto più complessa di quanto avrei mai potuto supporre.
Era dovuta arrivare la personificazione del mio conscio, Daffodil, a spiegarmi per bene le cose, da sola non c'ero arrivata.
Ero una matassa troppo intrecciata.

L'infermiera, quel giorno, non tardò a portarmi taccuino e penna.
Stringerli mi fece annodare violentemente lo stomaco.
Accarezzai la biro liscia consapevole che avrebbe continuato ad essere parte integrante della mia vita, un supplizio dal quale probabilmente non sarei mai riuscita a liberarmi.

Sarei sempre stata succube di carta e penna.

Non avevo ancora iniziato a scrivere questo memoir, questo sfogo vomitato su cellulosa, non comprendevo a fondo la potenza e le potenzialità della scrittura. Piuttosto, l'avevo sempre considerata per quel che era: un mezzo per qualcosa, un mezzo per comunicare in quel mondo di caos dal quale avevo provato a fuggire con ben poche speranze di farcela. Non potevo apprezzarla in alcun modo.

"Sto bene": delinei con lentezza, assaporando il tratto con immenso dolore.

In quel momento misi da parte tutto quel che ero stata nel Tartaro. Rinunciai all'amara ironia che aveva imparato a consolarmi, lasciai in disparte le risposte altezzose e la rabbia, i grugniti e i sospiri scocciati.
Lentamente, mentre scrivevo, mi resi conto di star tornando indietro al punto di partenza, a prima che la mia mente partorisse la Ragione e la Follia.

Potevo ricominciare nel mio silenzio, in disparte, avevo una seconda chance per riprovarci da zero. Potevo invertire il percorso, proseguire a camminare, ma questa volta in una direzione diversa.

Potevo tornare ad essere l'insicura Aurora, solo con un po' di consapevolezza in più e qualche macchia di sangue indelebile sotto le unghie corte.
Mi ritrovavo in un mondo nel quale mai mi sarei trovata a mio agio, senza voce per gridare e forza per lottare, sarei rimasta ancora schiacciata dalla forza degli eventi, ma potevo provare ad avviare un nuovo inizio.

Non avevo più nulla che mi identificasse con quello che ero stata. Avevo perso il mio gatto, Zeno, il mio monolocale, il mio lavoro. Avevo perso persino il mio orologio, finito nel dimenticatoio da qualche parte in ospedale.

Restavo solo io e il mio silenzio, potevo provarci, ancora. Potevo andare avanti, come mi aveva chiesto Nathan, tentare la costruzione di qualcosa, ma in maniera diversa questa volta.

Tutti bei propositi, tutte belle premesse, peccato che il tempo per approfondire la questione iniziò da subito a scarseggiare.

In quell'istante, nella stanza d'ospedale, entrò l'agente di polizia che si rese il principale stalker della mia esistenza.
Lì iniziarono le vere domande, gli interrogatori, i tartassamenti, gli sfinimenti.

Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora