69 - Gestire

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Buttai giù altri sei mesi della mia vita come fossero uno shottino d'acqua liscia.
Ero seduta su una delle gelide panchine incastrate nel cortile della REMS, osservavo le foglioline neonate dell'albero che cresceva indisturbato poco più in là della recinzione. Mi godevo il sole oscurato da pallide nuvole primaverili e pensai che per un istante, uno soltanto, tutto stesse nel posto giusto al momento giusto, persino io.

Alzai appena un sopracciglio quando vidi Manuele Ruffi terminare il suo ripetitivo giro attorno alla REMS. Lo scrutai mentre iniziava ad allontanarsi, tenendo le mani nelle tasche della giacca.
Ironicamente, sebbene non mi stesse più guardando, alzai un braccio in segno di saluto, sogghignando.

Le sue visite erano diventate sempre più frequenti ed io, nelle giornate più calde dell'inverno appena passato, avevo preso l'abitudine di sedermi su quella panchina, farmi guardare, sentirmi rimirata dalle sue pupille esaltate, ed osservarlo mentre iniziava a girovagare per i confini della REMS senza mai avvicinarsi troppo.
Continuavo a domandarmi cosa volesse, perché fosse arrivato addirittura a farsi aiutare da Adriano. Per cosa poi? Vendetta? Mi sarei stupita di meno a ritrovarmi Aldo Magistra a gironzolare per i paraggi. Perché Manuele aveva preso così tanto a cuore quel caso ormai chiuso?

Non mi preoccupava affatto, avevo deciso di non informare Gaeli, temevo avrebbe preso provvedimenti che non avrebbe potuto portare avanti. Manuele era sciocco, ma non così tanto. Passeggiava per i giusti punti, in modo che io riuscissi a vederlo, ma senza che le telecamere lo riprendessero. Ero una schizofrenica che accusava un poliziotto di stalking, tutti sarebbero presto giunti alla medesima conclusione: era solo un'allucinazione.

Non volevo invischiarmi in un altro caso appiccicoso, non volevo finire risucchiata da avvocati e tribunali ancora una volta, forse era proprio quello che voleva lui.
Io, d'altra parte, non volevo vedermi tolto quel piccolo divertimento.

Lo fissavo insistentemente, quasi alla pari di come mi guardava lui. Eravamo divisi da tanti metri e tante sbarre, non poteva sfiorarmi, non poteva raggiungermi: non poteva farlo la sua mano, ma neppure la sua ossessione per me.

Mi sembrava di osservare un leone irrequieto incatenato da una gabbia. Peccato che fossi io l'animale imprigionato, non lui. Lui era piuttosto il bambino insofferente che tirava noccioline ad una bestia affamata solo di sangue, senza rendersi conto del pericolo che correva, reso sicuro da quella recinzione invalicabile per chiunque.

Scrutai le sue spalle allontanarsi fino a scomparire.

Solo in quell'istante sobbalzai di scatto, quando sentii qualcuno schiarirsi la voce.

Se aveva voluto evitare l'effetto sorpresa, non c'era riuscito.

Lorenzo si palesò al mio fianco, sedendosi sulla panchina rabbrividendo: <<Fa freschino, eh?>>.

Mi strinsi nelle spalle e nella leggera sciarpa nera.

Rimase in silenzio per del tempo, mentre riportavo l'attenzione sui piccoli germogli dell'albero.
Non doveva dirmi nulla, non quella volta.
Le aveva provate tutte, nella sua caparbietà, ma tra me e Serena sembrava davvero finita.
Non per mia scelta, era ovvio, ma nulla avevamo potuto contro quella crepa creatasi tra di noi.
Dopo quella notte di prese, gemiti e capocciate, io ero rimasta nella mia nuova stanza. Avevo fatto trascorrere un paio di settimane, sperando di calmarmi, sperando di calmarla, e, quando mi ero sentita pronta, l'avevo avvicinata nella mensa.
Mi aveva evitata, allontanandosi, non leggendo neppure i messaggi scritti che le avevo accostato sotto agli occhi, aveva smesso addirittura di venire alle terapie di gruppo, probabilmente sotto permesso della dottoressa Zanetti.

Avevo fatto passare altro tempo, sperando che la situazione migliorasse, e poi avevo ritentato, ma nulla sembrava smuoverla: l'avevo afferrata per un polso e l'avevo tirata, l'avevo supplicata tenendo le mani giunte sotto al mento, ma non voleva neppure guardarmi.
Mi perseguitò l'idea di saperla arrabbiata con me –supposizione fomentata dalla voce irregolare di Ryan-, ma Lorenzo era venuto in mio soccorso, spiegandomi come, piuttosto, fosse Serena a sentirsi in colpa.
Gli avevo chiesto di convincerla a lasciar correre, a tentare di riallacciare il nostro rapporto, di consolarla da quel rimorso che provava, ma neppure lui c'era riuscito.

Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora