Il panico e terrore sono spariti lasciando il loro spazio a... niente. Emma ha ancora il cellulare all'orecchio ma sembra persa nel vuoto. Lo prendo dalla sua mano e ascolto.
«Emma, amore sei lì?» Sento una donna.
«Salve, sono Cody, Emma...» Prima che possa concludere la mia frase lei aggiunge. «Chiunque tu sia, per favore puoi portarla al Belling Hospital, sua madre non sta bene.»
«Subito.» Chiudo la chiamata mentre i miei occhi non si staccano dal suo volto.
Mi siedo di fronte a lei, così che lei mi possa vedere. «Emma, dobbiamo andare.»
Lei non reagisce. Non batte né anche ciglio. Le accarezzo la guancia, sperando che il tocco la possa portare da me. «Emma, dobbiamo andare,» ripeto.
«Emma, prima che sia troppo tardi.» Finalmente ritorna in sé e annuisce mentre i suoi occhi mi fissano ma so che sono altrove.
Devo avvisare qualcuno. «Aspettami qui.» Corro nel corridoio e vado dalla preside. Mi precipito senza ne anche bussare alla porta.
«La madre di Emma è in ospedale. Devo accompagnarla lì.» Attendo una risposta dalla donna che è impegnata in un colloquio. Lei sgrana gli occhi e annuisce. «Certo, corra!»
Senza dire altro ritorno da Emma, la prendo per la mano e la guido fino all'uscita, tra gli altri studenti che si dirigono verso le loro aule. Metto subito in moto la macchina e proseguo fino a Belling Hospital. Ogni tanto la guardo. È immobile. Guarda fissa nel vuoto. Mi preoccupa questa sua reazione: si sta chiudendo in se stessa. Ho paura che si autodistrugga.
Parcheggio di fronte all'ospedale e mi giro aspettandomi che lei scenda di corsa ma non lo fa, è ancora seduta come dieci minuti fa: gli occhi rossi dal pianto di prima fissi di fronte a sé, il naso rosso, la faccia gonfia, le mani raccolti nel grembo, le spalle curve e i capelli dolcemente in disordine.
«Emma, siamo arrivati.» Si gira verso di me, gli occhi senza vita. «Dobbiamo andare.»
Scendo dalla macchina e le apro la portiera. Anche lei scende, lentamente. Guarda l'edificio di fronte a noi e per la prima volta negli ultimi dieci minuti la vedo reagire: respira profondamente.
«Dona felicità fino alla morte,» ripete e poi mi guarda dritto negli occhi. «Mia mamma mi diceva "Dona felicità fino alla morte".» Sorride.
Sembra la personificazione dell'agonia in questo momento.
Le prendo la mano e la stringo forte. I suoi occhi seguono la mia mano che stringe la sua. Non mi interessa se sia sbagliato o giusto. Lei ha bisogno di qualcuno che le stia accanto e adesso ci sono io.
«Guardami,» mormoro. La fisso negli occhi per farle capire che sono lì, con lei. «Tu sei coraggiosa e lo sarai sempre.» Cerco di convincerla.
Lei annuisce e ci incamminiamo verso l'entrata. Chiedo dove sia il reparto emergenze.
«Emma, come si chiama tua madre?»
«Carmen Rhodes.»
«Salve, stiamo cercando Carmen Rhodes. È stata portata qui.»
L'infermiera risponde subito: «Sì, si trova nella stanza tre.» Dopo averla ringraziato, proseguo verso la stanza tre, con Emma che cammina accanto a me mentre le nostre mani sono incatenate l'una nell'altra.
Appena giriamo verso il corridoio dove è collocata la stanza, vedo una donna precipitarsi verso di noi.
«Emma,» dice abbracciandola forte. Sciolgo le nostre mani cosicché possa rispondere all'abbraccio ma non lo fa. Rimane immobile. È fredda. Impassibile.
«Posso vederla?» chiede, senza emozioni nella sua voce.
La donna annuisce e le indica la stanza. Emma cammina verso quella direzione come un corpo senza vita.
Ecco un altro capitolo! Pensate che la madre morirà subito o Emma avrà più tempo?
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Shelter
ChickLitEmma, 18 anni, studentessa modello al Belling High School, affronta con coraggio la vita ogni giorno. La madre ammalata di cancro, il lavoro di notte e l'ambiziosa borsa di studio per Standford University non le permettono distrazione. I suoi gior...