Otto ~ Anima E Corpo

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"Dai, dai, metti le mani nel fuoco
Dall'estate alla primavera
Dalla montagna all'aria
Da samaritano al peccato
Vieni, andiamo
Metti le mani nel fuoco"
-Into The Fire, Thirteen Senses-

Jude

Un mondo che la gente che sostiene di conoscermi -che la gente che pensa di conoscermi- non crederebbe mai mi appartenga?
Quello degli sport estremi.
Già, senza alcun dubbio, conoscendomi oggi, nessuno mi assocerebbe mai a nulla che porti con sé le parole spericolato ed estremo.
Eppure.
E invece.
Ci sono molte definizioni di sport estremo.
Pericoloso, propenso alla fatalità, carico di adrenalina.
Che ti porta a sfiorare il confine tra la vita e la morte.
Affascinante.
Proprio così, molti ci vedono anche del fascino in tutto ciò.
Ma per me, non si tratta di questo.
Per me praticare uno sport estremo significa dedicarsi anima e corpo ad un'attività che coinvolga tutti i tuoi sensi, tutti i tuoi pensieri, tutto te stesso.
Significa immergersi completamente dentro a quella realtà folle.
Significa non permettere a nessuna componente di te di distrarsi.
O è la fine.
Uno sport estremo, è quello sport perfetto che ti isola dal mondo, quello sport perfetto dove il mondo lo puoi lasciare fuori per davvero.
Quando arrivi al limite nella realtà in cui vivi, quando vuoi scordare per un po' la tristezza che ti porti addosso e l'alcool non basta e le donne nemmeno, è a quel tipo di sport che ti rivolgi.
E poi glielo chiedi con piacere di prendersele tutte le tue attenzioni, gliela dai con piacere ogni parte di te, almeno per un po'.
Perché almeno per un po', hai bisogno di evaporare.
Hai bisogno di non esistere più in questo caos, in questa città, hai bisogno di sfumare e confonderti con l'elemento con cui ti identifichi: acqua, montagna, aria, terra.
E non sei più dolore, né paranoie, né lacrime, né ansia.
Ma ti senti vivo lo stesso.
Molti direbbero che è stupido, stupido e da incoscienti mettere in pericolo così la propria vita, ma io in quei momenti la vita la sentivo fino in fondo, la sentivo tutta, e in quegli attimi, non mi è mai sembrata così bella.
Non era un pensiero che avrebbe elaborato un uomo sano di mente?
Be', era da un pezzo che non mi ci sentivo più granché sano di mente.
Mi costringevo ad esserlo la maggior parte del tempo, ma prima o poi avevo bisogno di esplodere.
Ed era questo il mio modo e la mia occasione per farlo.
Comunque, non sono sempre stato così.
Così combattuto, così avventato, così perso.
Non sono sempre stato questo.
Quest'uomo che nella sua pelle ci stava male, che aveva un cuore già pieno di crepe a soli ventun anni, che aveva la testa piena di ricordi bui e sensi di colpa.
Ed era proprio vero ciò che si diceva a proposito di quelli: i sensi di colpa si avvolgono come spire intorno al cuore, e ogni volta che guardavo Summer quelle spire non facevano che stringere.
Avrei potuto fare di più per lei, avrei dovuto essere di più per lei.
Non l'avevo amata come avrei dovuto sin dal primo giorno.
Stupidamente, pensavo di non innamorarmi alla follia di quel minuscolo fagottino rosa, pensavo di poter resistere all'amore che invece mi avrebbe strappato di mano.
Giorno dopo giorno, avendola accanto, era stato impossibile non restarne incantato. Fregato.
Ma col senno di poi non me ne faccio più niente, e in un certo senso mi ci ero condannato con le mie stesse mani in questa gabbia.
Ad ogni modo, per una volta non era di Summer che stavo parlando, ma di com'ero arrivato a fare quello che facevo.
Un giorno di otto mesi fa ero così nervoso che dopo cena ero uscito di casa e avevo preso a camminare da solo per le vie più sconosciute di Charleston.
Mi ero allontanato dal mio quartiere ed ero finito in una zona meno raccomandabile, e proprio lì, nascosta in una piccola via, avevo trovato una palestra malandata che aveva catturato la mia attenzione.
Io me ne andavo in giro pregando di trovare un posto o qualcosa -un posto o una qualsiasi cosa- che mi salvassero dal mio rimuginare, e quel posto lo avevo trovato davvero.
Le mie preghiere erano state esaudite quella sera.
E io avevo cominciato a credere in Dio quel giorno.
Anche se ogni tanto ci litigavo ancora.
Perché avevo chiesto silenziosamente aiuto, e quell'aiuto mi era stato dato.
Anche se forse non era esattamente credibile che Dio mi avesse dato proprio un aiuto del genere.
Forse era stata una tentazione. Forse in verità, Dio mi aveva messo alla prova e io avevo fallito.
Non importava ormai. In quei mesi tutto questo era stato necessario per me, e mi bastava viverlo senza per forza dover cercare le risposte a quelle domande.
Adesso, ogni volta che ho un paio d'ore libere alla settimana, che sia pomeriggio o sera, è qui che vengo. E passando da questa strada, prima di varcare la porta di quella palestra, ricordo sempre la sensazione di quel giorno.
Ricordo la prima volta che sono entrato, smarrito e confuso, ricordo di essermi guardato intorno già pronto a tornarmene indietro. Poi un istruttore era venuto a chiedermi cosa mi servisse, e davanti al mio silenzio mi aveva proposto una prova gratuita. Una lezione per decidere se quel posto facesse al caso mio o meno.
Krystian a modo suo mi aveva salvato quel giorno. E da allora, oltre che a un istruttore, era stato anche un grande amico per me.
Nonostante non gli avessi parlato molto della mia vita, aveva intuito che c'era un peso che non sapevo scaricare giù dalle mie spalle, e che tentavo di alleggerire così.
Lo aveva percepito nella furia che avevo tirato fuori già alle prime lezioni, quando Krystian poi aveva dovuto placarmi e spiegarmi che all'inizio quello sport era solo calma, concentrazione e disciplina.
Avevo dovuto essere paziente, molto paziente.
Avevo dovuto aspettare che lui mi dicesse che ero pronto per combattere in un corpo a corpo vero.
Nel caso ve lo stiate chiedendo, non si trattava di illegali lotte clandestine.
Ma di incontri di arti marziali miste che avvenivano alla luce del sole.
O alla luce della luna.
Quando era arrivato il momento anche per me di gettarmi nella mischia, be', lì mi ero liberato e avevo trovato quel momento in cui della vita là fuori, riuscivo a non farne restare davvero più niente.
Non ero mai stato un tipo violento, un tipo che si gettava in mezzo alle risse, ma quello sport andava oltre la violenza per me, e mi piaceva pensare che fosse lo stesso anche per gli uomini contro cui mi confrontavo.
Non era infliggere o schivare il dolore il punto, ma concentrarsi su qualcosa a tal punto da annullare il resto.
Era far parte di qualcosa.
E se la prima volta era stato un trauma per me attaccare l'uomo che mi ero trovato davanti, presto l'adrenalina aveva cancellato con un colpo di spugna qualsiasi paranoia, e mi aveva trascinato nella lotta.
E non era rimasto spazio per pensare, e non era rimasto spazio per nulla che non fossero le mosse da premeditare, i colpi da schivare, l'intuito che mi suggeriva come muovermi.
Avevo iniziato a capire presto come fosse vero che quello sport era soprattutto disciplina.
Se visto da fuori sembravamo degli animali, in quello che facevamo c'era molta più razionalità di quanto ci si aspettasse.
Per la loro cultura -per la cultura giapponese- questa era una forma di arte in tutto e per tutto, e questo si che aveva dell'affascinante.
Il dolore, le ferite che spesso mi ero beccato, erano una realtà spiacevole con cui avevo dovuto fare i conti. Non ci avevo messo molto ad accettarlo.
Perché sapevo bene che di ferite nella vita ne accumulavi lo stesso.
Neanche starmene immobile mi teneva al sicuro, perché ci sarebbe sempre stato qualcuno che avrebbe ostacolato la mia libertà.
E allora meglio prenderla per le corna questa vita, meglio gettarsi nel fuoco che lasciarsi bruciare.
<<Jude! Ti aspettavo>> mi saluta una delle poche facce che in questo posto vedo più che volentieri, e che mi era già mancata terribilmente.
Come ho già detto, dall'alto dei suoi trentadue anni, quest'uomo con la sua esperienza e con la sua saggezza è diventato una presenza di vitale importanza per me.
E non potrò mai dimenticare né ringraziarlo abbastanza per non avermi lasciato andare via quel giorno, per aver letto qualcosa nel mio sguardo perso, e avermi dato un altro posto da poter chiamare casa quando la mia iniziava a soffocarmi.
<<Krystian>>
Mi lascio abbracciare, e come ogni volta mi tocca anche lasciarmi squadrare e studiare dal suo occhio vigile e dal suo intuito giapponese.
<<Ti vedrò mai mettere piede qui senza quella luce tormentata negli occhi?>> mi rimprovera bonariamente.
<<Chi lo sa. Mettimi all'opera e andrà via>>
Scuote la testa e mi lascia leggere direttamente dalla sua faccia tutto il suo disappunto per questa storia.
Non gli va giù che questo sia il mio modo per scappare dal dolore.
Non condivide l'idea di pendersi una pausa da qualsiasi cosa faccia soffrire un uomo: per lui il problema va affrontato e basta.
<<A te serve una donna Jude>>
Detesto che appena lo dica, sia Jade il primo volto che mi balena per la testa.
Detesto la velocità con cui il suo visetto d'angelo si sia insinuato in questa discussione.
Alzo gli occhi al cielo senza rispondere, e lascio che Krystian mi prepari per la prossima gara.
Stasera ho dato buca ai miei amici con la scusa di dover tornare a casa per stare con Summer, ho cenato con la mia famiglia e poi me la sono svignata per fare questo.
Qualcosa di cui nessuno sospetta nulla.
Qualcosa che i miei genitori o quei pochi ragazzi che posso chiamare amici, non immaginerebbero mai io possa fare.
Be', non ho mai detto di essere il santo che tutti credevano.
E comunque, questo era il solo modo che conoscevo per placare quel lato di me che tenevo rinchiuso, ma che prima o poi dovevo liberare se mi aspettavo che restasse buono il resto del tempo.
E non appena vedo il mio avversario pronto, quel lato scalpita già.
È un leone rimasto in gabbia troppo a lungo.
È un leone che ha fame.
Faccio il mio ingresso in pedana, mi metto in posizione, e al via di Krystian, il mondo scompare.
E appaio io.

Finché Respiro (Until I Breathe #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora