Capitolo Undici

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La donna fece cenno ai suoi soldati di stare indietro e di mantenere la loro posizione, e si avvicinò a passi lenti ai due giovani.

Il Dragone di Annekha non poteva più attaccare. I suoi obiettivi erano troppo piccoli, e troppo vicini ad Annekha stessa. La giovane imprecò sottovoce. Non poteva usare il fuoco del Dragone contro il fuoco della Fenice. Non aveva senso. E rendere il Dragone realistico era uno sforzo troppo grande.

Annekha non era preparata a combattere in quelle condizioni. Non aveva tempo per decidere. Non aveva spazio per muoversi. Era lei, la preda, questa volta. E non riusciva a concentrarsi, non riusciva a mantenere la sua mente lucida, mentre questa veniva invasa dalla paura di fallire e da quella di morire. E non sapeva scegliere quale delle due fosse la peggiore.

Annekha cercò di dirsi che era stata addestrata per questo. Si era già ritrovata di fronte diversi nemici, e aveva sempre saputo che cosa fosse meglio fare. Suo padre le aveva sempre fatto notare i suoi errori, perché riuscisse a migliorarsi, e quando lei stessa aveva avuto delle trovate abbastanza ingegnose, aveva ricevuto persino dei complimenti da lui.

Ma, in quel momento, non era pronta a combattere. Davanti a sé vedeva solo dei Djabel. Degli Yksan, quindi dei traditori, che non avrebbero di certo pesato sulla sua coscienza. Ma non era questo il punto. Annekha non li uccise solo perché non riuscì a ucciderli. E non riuscì a ucciderli perché erano troppo potenti.

Non avrebbe potuto farlo, se non con il rischio di esporsi a uno sfregio cerebrale. E non poteva correre questo rischio. Non poteva fare la stessa fine di sua madre. Era lei, l'ultima Djabel del Dragone. E se avesse fallito, se fosse morta, se avesse ricevuto uno sfregio, sarebbe diventata la disgrazia sia della famiglia Lanes che della famiglia Khilents, le due più importanti dell'Impero di Zena, unite in lei.

Non poteva fallire. Non poteva affrontare quel disonore. E non poteva rischiare, anche se il prezzo sarebbe stato la sua stessa vita.

Aveva trovato la risposta alla sua domanda – il fallimento era peggiore della morte.

Vinczel si morse il labbro, e tentò di elaborare un piano. Lontano dalle dinamiche di onore e gloria, si concentrava sulla battaglia di fronte a lui.

Non poteva chiamare a sé i mostri – non sapeva come fare, oppure erano agitati, o forse non lo avrebbero mai più ascoltato. E poi, se avesse perso il controllo, sarebbero stati pericolosi per lui e per Annekha.

Non poteva usare la sua illusione – una minuscola tigre era inutile contro una decina di tipi di predatori diversi insieme a una Fenice. E distruggere proprio quei predatori non sarebbe servito a nulla. Dovevano puntare ai Djabel.

«Anne» la chiamò.

La giovane si voltò di scatto, il suo sguardo perso, i suoi occhi spalancati. Aveva paura.

«Se prendiamo di mira le illusioni non faremo che affaticarci, e loro ne creeranno di nuove» spiegò Vinczel, con la voce più ferma che poté.

«Lo so!» ribatté Annekha, nervosa. «Ma non posso fare niente. Non posso sforzarmi troppo. Non posso rischiare—»

«Va bene» la interruppe Vinczel, la sua voce ancora più calma. «Lo capisco. Non ti sto chiedendo di sforzarti. Ti sto solo chiedendo di coprirmi le spalle.»

«Che cosa?» Annekha non capì, e balbettò qualche parola, alternando lo sguardo tra Vinczel e gli Yksan che si avvicinavano, insieme alle loro illusioni. La sicurezza del primo stonava in contrasto con la ferocia dei secondi.

«Devo arrivare alla caverna, e tornare con le nostre armi.»

Annekha spalancò gli occhi, incredula. La caverna si trovava almeno a un centinaio di metri.

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