Capitolo Ventisette

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Annekha prese a scuotere la testa.

«È inutile rifugiarsi nelle bugie, Anne» cominciò a dire Chayon. E il suo sarebbe sembrato un discorso paterno confortante, se non fosse uscito dalle labbra di un uomo di ferro e di ghiaccio, che la stava fissando con i suoi occhi vuoti e fuligginosi.

«Non è detto che sia lui. Non è vero. È una coincidenza. È un figlio illegittimo di qualche ramo perduto della famiglia Endris. Non hai nulla per provarlo!» continuò a negare Annekha, più a se stessa che al padre.

«Quello che ho mi basta eccome» disse Chayon. «Nivary Brynja, la madre di Endris Larenc, era una Djabel della Tigre, discendente della famiglia Shaor. Questo lo sai anche tu. Ed Endris Larenc non era un Djabel poiché possedeva il gene Cigno del padre e il gene Tigre della madre. Gene, quest'ultimo, che ha trasmesso alla prole. Ossia al tuo amato Vinczel.»

«Non è il mio—» provò a negare Annekha, ma ancora, a che serviva tentare di mentire solo per venire scoperta? Non aveva senso.

Ma non era una bugia, disse a se stessa. Come poteva amare il figlio dell'uomo che aveva ridotto sua madre alla figura esile, piangente e sanguinante raggomitolata sulla poltrona?

Il fatto era che, ancora, ignorava chi fosse davvero la causa di tutto.

«E i suoi occhi, Annekha» riprese Chayon, continuando a camminare verso di lei. «Tu non hai mai visto gli occhi di Endris Larenc, ma ti assicuro che sono le stesse identiche iridi di quel vetro nero e lucido, dietro le quali si nascondono demoni e una crudeltà che tu non riusciresti nemmeno a immaginare.»

A quel punto si fermò, giunto ormai a un passo dalla figlia. E smise anche di parlare, ricordando le parole dell'Alto Imperatore. Gli occhi neri del portatore di pace erano destinati a incontrare gli occhi del colore dell'ambra della Djabel del Dragone, e lei gli avrebbe ricambiato lo sguardo.

Era troppo tardi, capì Chayon. Troppo tardi. Quegli occhi si erano già incontrati. E le parole della figlia non lo sorpresero.

«Fa lo stesso» disse Annekha, infatti, scuotendo appena la testa. «Non mi importa chi era suo padre. Perché non posso vederlo? Perché non posso andare a scuola? Perché vuoi rinchiudermi qui dentro?» protestò ancora.

Chayon inspirò profondamente. Ancora una volta quel giorno la rabbia minacciava di divorarlo. Si sentiva impotente di fronte al destino, come era sempre stato.

E la sconfitta bruciava. Perché la sconfitta brucia sempre più intensamente sulla pelle di chi è abituato a vincere.

«Perché non sei tu a decidere» rispose, infatti, severo, tornando verso la porta, dandole le spalle. «Perché io sono tuo padre, e perché questo è ciò che ordina l'Alto Imperatore.»

Perché il mio compito è proteggerti, avrebbe aggiunto, se non avesse saputo che tutti i suoi sforzi erano comunque vani.

Detto ciò, chiamò Mikhay. Il servitore accorse immediatamente – era chiaro che fosse rimasto in ascolto per tutto il tempo – e Chayon gli consegnò una chiave.

La chiave della sua camera da letto, volle sperare Annekha. Ma no, capì ben presto. Era la chiave della porta principale.

«Non puoi farlo!» continuò a urlare Annekha, mentre il padre apriva la porta. Sarebbe andato al fronte di Magastor, e ci sarebbe rimasto per alcuni giorni. «Che cosa diranno di me a scuola?» provò a convincerlo la figlia. «Che cosa penseranno di me?»

«Diranno che sei una figlia obbediente» rispose Chayon, ormai sull'uscio, dandole solo un'occhiata da sopra la spalla. «E penseranno che siamo fedeli all'Imperatore. Ed è bene che continui a essere così.»

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