Capitolo Settantacinque

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Vinczel rimase immobile, fissando il nulla, dietro di lei. Fece un altro passo indietro, raggiungendo il muro. Scivolò lentamente, sedendosi poi sul terreno freddo e roccioso.

Il suo respiro, ora irregolare, formava minuscole nuvole bianche, che scomparivano rapidamente. Conosceva il suo destino. Sperava solo che Annekha non lo avrebbe accettato così facilmente. Doveva vincere la guerra, e poi morire a causa sua. Lo sapeva. Lo sapeva, certo. Ma sperava che avrebbe avuto la possibilità di vivere, fosse solo per poco, un anno o due.

Alzò lo sguardo, di nuovo, trovando i suoi occhi, ardenti come fiamme e freddi come l'acciaio al tempo stesso. «E tu sei qui per eseguire quell'ordine?» le chiese, come a sfidarla, e poi aprì le braccia, «Avanti.» la invitò, «Spara.» Sapeva che non avrebbe potuto farlo. Non adesso. Non ancora.

Annekha scosse la testa. Le lacrime bruciavano agli angoli dei suoi occhi, annebbiando la sua visuale. «Non posso.» sussurrò, la sua voce sul punto di spezzarsi, «Non posso farlo.» disse, più forte, abbassandosi a sua volta, fino a ritrovarsi in ginocchio, ora guardandolo di nuovo negli occhi.

Vinczel la osservò, nella sua lotta contro le lacrime. Avrebbe voluto poterla abbracciare. Avrebbe voluto potersi avvicinare a lei, stare con lei, persino amarla. Ma sapeva fin troppo bene che Annekha era destinata a diventare la sua nemica. In realtà, lo era già. E lui avrebbe dovuto essere più prudente.

Non dipendeva da lui. Il pensiero attraversò la sua mente, veloce come un fulmine, e come un fulmine lo colpì. Non dipendeva da lui. Non era colpa sua, né merito suo, qualsiasi cosa fosse accaduta.

E non dipendeva nemmeno da lei, ampliò poi il concetto, nella sua mente. Avrebbe potuto continuare non a vivere, ma semplicemente a esistere, come uno spettatore della propria vita, e di quella di tutti coloro che lo avrebbero circondato.

Ma avrebbe potuto farlo con serenità. Anche quel senso di colpa che sentiva non aveva motivo di esistere. Lui stesso non aveva motivo di esistere, in fondo. Era un errore, nato dall'incoscienza di due giovani destinati a morire, impossibilitati a crescerlo. E sarebbe dovuto essere già morto, nei piani di suo padre, anche se non lo sapeva.

Vinczel era un fantasma. Era il fantasma del bambino che Larenc non aveva avuto il coraggio di gettare dalla scogliera di Fersenvar.

«Andiamo,» disse, alzandosi in piedi, sospirando, «Facciamola finita.»

«Che cosa?» chiese Annekha, ancora in ginocchio, ora guardandolo dal basso. I suoi occhi sembravano più grandi, e lei sembrava una bambina, «Cosa intendi dire?» domandò ancora.

«La guerra.» rispose Vinczel, con rinnovata vitalità, e un sorriso falso. Perché tutto, nella sua vita, da quel momento in poi, sarebbe stato una messinscena. «Sei qui per portarmi con te, fuori da qui, e al fronte.» fece un cenno verso sud, allungando il braccio. La manica nera sventolò come una bandiera al vento. «Allora andiamo.» disse, «Crea il tuo Dragone, e io sopporterò ancora una volta le mie vertigini. Terrò i mostri abbastanza lontano dai Tesrat perché non li feriscano. Non stanno combattendo anche oggi, spero—»

«Vinczel.» lo interruppe Annekha, «Sono io che dovrei guidarli. Da sola. Tutti credono che i mostri seguano semplicemente il mio Dragone. Non possiamo rischiare che ti vedano. Ho mentito, ma era solo per proteggerti. Per mantenere il tuo segreto. Come mi avevi chiesto. Come avevo promesso.» cercò altre giustificazioni.

«Lo so, Anne.» disse lui, la sua voce più morbida, più profonda, mentre le offriva la sua mano, e la aiutava a rialzarsi.

Poi la ritrasse. Quella di Annekha era calda, rispetto alla sua. Era viva. «Non hai fatto niente di sbagliato. Non devi scusarti.» disse lui.

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