Capitolo Sessantadue

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Djric aveva aspettato Annekha nei giardini, per tutto il pomeriggio. Era quasi sera quando finalmente lei lo raggiunse. Ed era triste, sconsolata, e i suoi passi erano lenti e strascicati. Annekha si trascinò fino alla magnolia spoglia, e oltre, alla panchina dove Djric stava seduto ad attenderla, mentre osservava il laghetto.

La pioggia era venuta, era passata, il vento continuava a soffiare, e Djric era rimasto fermo, al riparo sotto la grande quercia, che con le sue foglie fitte lo aveva salvato dalle gocce d'acqua che si erano abbattute sulla città. Il terreno emanava ancora il suo dolce profumo, tipico delle giornate piovose.

I fiori dell'estate erano stati sostituiti da tempo. Il vilucchio non si arrampicava più sul chiosco, non vi era traccia dei cigni, nell'acqua, né dei fiori di loto – era rimasta solo qualche ninfea giallognola. Ad abbracciare il laghetto non erano più gli iris, ma i crisantemi, i fiori di novembre. E le ortensie stavano sfiorendo, vicine alla siepe di lauro. La quercia stava perdendo le sue foglie, e l'aria era umida di una pioggia imminente – di nuovo – mentre la nebbia sul laghetto sembrava espandersi per tutto il giardino, e divorare il cielo grigio.

Annekha raggiunse la panchina, ma non si sedette. Rimase in piedi, di fronte a Djric, senza trovare nemmeno la forza di guardarlo, ma osservando i suoi piedi, le sue scarpe nere, lucide...

«Anne.» la sua voce sembrò risvegliarla dal sonno. Il sonno che pesava gravemente sulle sue palpebre, che si erano chiuse per nove notti solo per mostrarle le immagini più cruente e insanguinate, e poi si erano aperte, per svegliarla di nuovo. Annekha non aveva dormito, dal giorno della battaglia di Magastor.

E ancora non avrebbe saputo dire quale lato delle sue palpebre la spaventava di più. Il mondo in cui erano aperte, grigio e monotono e freddo, oppure quello in cui erano chiuse, rosso e agitato e pieno di fantasmi.

«Non è colpa tua.» Djric conosceva i suoi pensieri. Conosceva il motivo delle occhiaie profonde che circondavano i suoi occhi ambrati, tanto sconsolati oggi come non li aveva visti mai.

Si alzò dalla panchina, guardando Annekha negli occhi. «Vieni.» disse, e prese la sua mano.

Annekha era inerme. Lo seguì per il percorso di porfido, che li guidò fino al giardino blu. In quel punto, il sentiero diventava una scalinata, che li portò fino a un secondo laghetto, più piccolo di quello al bordo del quale cresceva la magnolia. Le rose blu circondavano il piccolo chiosco bianco, all'ombra del quale stava una panchina, anch'essa bianca, rivolta verso il laghetto, circondato da iris di un indaco intenso.

Il giardino blu era sempre blu. Era sempre lo stesso. Il resto dei giardini olografici cambiava, al variare delle stagioni, e i fiori venivano sostituiti, senza mai appassire. Nel giardino blu, invece, tutto era intatto. Le rose blu, inodori e perfette e irreali, i cui petali Annekha stava accarezzando, erano le stesse che avevano assistito alla morte di un uomo, ed erano rimaste in silenzio, inalterate nella loro bellezza. Sempre perfette. Sempre irraggiungibili. Sempre finte.

I loro passi si fermarono, restituendo il silenzio ai giardini. Il tempo sembrava essersi fermato, mentre Annekha e Djric si guardavano negli occhi, costretti ad accettare la realtà.

«È stata colpa mia.» mormorò Annekha, le sue labbra secche appena divise, mentre quelle parole taglienti si facevano strada, e combattevano per essere libere.

«Non è vero, Anne.» disse Djric, prendendo la sua mano. Era fredda. Tutto era freddo, nel giardino blu, con i suoi toni bianchi e azzurri. L'aria stessa sembrava essersi trasformata in ghiaccio. I loro respiri formavano piccole nuvole bianche, e i due si strinsero ancora di più l'uno all'altra.

Djric chiuse Annekha tra le sue braccia, e la ragazza prese a singhiozzare. Lo fece con leggerezza, con spontaneità, come se le lacrime fossero la naturale conseguenza a un suo abbraccio.

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