Capitolo Trentanove

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«Pensavo di uscire, oggi» rivelò Kerol al maggiordomo. «Fare visita all'Imperatore. È da molto che non sento la sua voce, dopotutto.»

«Intendete... dell'Imperatore?» chiese Mikhay, sentendosi ridicolo, ma sperando in un no. Sperando che si riferisse a Endris Larenc, e che stesse finalmente guarendo.

«Be', sì, di chi altro?» si sorprese Kerol. O finse di sorprendersi. Ogni sua parola aveva la finalità di distrarlo dal minimo particolare, di odore o sapore, che avrebbe potuto fargli capire che cosa si trovasse nella sua tazza di tè.

E Mikhay si lasciò distrarre, senza sapere come interpretare la sua risposta, e ragionando su quell'enigma, piuttosto che sulla leggera differenza nella tonalità del tè, un poco più tenue di quello che avrebbe dovuto essere. Lady Kerol aveva parlato in quel modo perché dava per scontato che non avrebbe potuto riferirsi a nessun altro o perché dava per scontato di udire frequentemente la voce di Larenc?

«Ma certo» acconsentì comunque il maggiordomo. «E volete recarvi a Palazzo oggi stesso?»

«Sì, se possibile» rispose Kerol, alzando appena la testa. «Non che mio marito possa avere qualcosa da dire in contrario, immagino.» Fece cenno all'aria, alla sedia vuota alla propria destra, dove Chayon sedeva di solito.

Quando Chayon non c'era, Kerol sembrava quasi se stessa, nonostante l'indelebile ombra di tristezza che quell'uomo aveva fatto calare su di lei. L'aveva cambiata. L'aveva sfregiata. L'aveva spezzata.

«Certo, certo che è possibile» confermò il servitore.

Kerol sorrise, un sorriso educato che nascondeva una smorfia di vittoria, e che svanì fugacemente, senza nemmeno il bisogno del suo intervento. Era troppo innaturale che la manifestazione di un'emozione tanto affine alla felicità sostasse per troppo tempo sulle sue labbra.

Mikhay si affrettò a finire la colazione, e a ritirare i piatti. Kerol cominciò a contare. Quindici minuti al massimo, e il vecchio servitore sarebbe crollato dal sonno. Si sarebbe risvegliato dopo qualche ora.

Kerol ebbe il tempo di tornare in camera, riporre la confezione di sonniferi, e vestirsi per uscire – tutte quante azioni che riusciva a compiere da sola. Dopo un momento di necessità, nei primi mesi, si era sempre rifiutata di chiedere aiuto. Il fatto di scendere le scale accompagnata da Mikhay era una cortesia che era lei a fare a lui, piuttosto che il contrario. L'anziano maggiordomo amava sentirsi utile, ed era profondamente fedele alla famiglia che serviva. Forse era l'unico, dopo la morte di Larenc, che avesse mostrato a Kerol del genuino affetto.

Mikhay aprì la porta d'ingresso, e si voltò verso Annekha per rivolgerle un cenno di saluto, la chiave ancora nella serratura.

«Dove state andando?» domandò la giovane, ricominciando a recitare.

Ora che conosceva le intenzioni della madre, sapeva anche di dover far perdere tempo a Mikhay, in modo che il sonnifero facesse effetto mentre la porta era ancora aperta, la chiave ancora in vista. Aveva già preparato tutto ciò che le serviva per uscire, mentre anche la madre si stava vestendo.

Non appena Mikhay fosse crollato dal sonno, tutto ciò che Annekha avrebbe dovuto fare sarebbe stato sgattaiolare in camera, afferrare la giacca e la sciarpa, infilare gli stivali, e uscire di casa.

«Vostra madre intende recarsi al Palazzo Imperiale, e io la accompagno» la informò Mikhay. «Perdonatemi» disse, poi, voltandosi appena e coprendosi la bocca con una mano per nascondere uno sbadiglio.

Sbatté le palpebre un paio di volte, si strofinò gli occhi, e cercò di concentrarsi su ciò che si trovava davanti a lui. La porta. Doveva solo aprire la porta.

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