Capitolo Quarantasei

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Kerol era grata di non avere più quella falsa percezione del vuoto sotto di sé, data dal fatto che il pavimento della sala del trono fosse di vetro, ma ne ricordava la vista, anche se non la spaventava più.

Sapeva che vi erano ventitré colonne su entrambi i lati della sala. Sapeva che ognuna di esse si trovava a una distanza di cinque passi dalla precedente. Sapeva tutto, di quella sala. Per questo aveva ordinato a Mikhay di restare all'esterno.

Il suono del portone che si richiudeva dietro di lei, separandola dal fedele servitore, quasi la fece sobbalzare. Kerol provò l'innegabile istinto di voltarsi. Di fuggire.

Ma non lo fece. Si trovava in quel luogo che tanto odiava per un motivo preciso.

Quasi poteva sentire il calore della luce del sole, che filtrava dalla cupola che sovrastava il trono, per poi riflettere sui fusti tortili delle colonne costellate di pietre lucide, e sul pavimento di vetro stesso, andando a colpire il suo volto, e facendo scintillare i suoi occhi e la sua pelle bianca.

La donna alzò la testa, come non era più abituata a fare, e diresse il suo sguardo vago in direzione del trono. I sussurri elettrici quasi impercettibili che provenivano da quella parte attirarono la sua attenzione, e questa volta Kerol non poté evitare di rabbrividire.

Si trovava di fronte a un mostro. Il mostro che governava il suo mondo. Il mostro che la stava distruggendo. E non poteva sconfiggerlo. Non poteva fermarlo.

Prese un lungo sospiro, e continuò a compiere un passo dopo l'altro in direzione del trono. E non riuscì ad allontanare dal suo stomaco la sensazione di essere solo un burattino nelle mani dell'essere che era seduto su quella scomoda sedia. Al contrario, più procedeva, più Kerol si sentiva come se quei fili di nylon si stessero stringendo, attorno ai suoi polsi, fino a bloccare le sue vene, e si stessero tramutando in fili spinati, per lacerare la sua pelle, e catene, per appesantirla. Per fermarla.

Ma lei continuò. Non voleva farlo, in realtà. Non voleva porre quelle domande. E non voleva nemmeno ricevere risposte. Non voleva davvero la verità. Sapeva che le avrebbe fatto solo più male. Ma, giunta a quel punto, Kerol aveva imparato ad amare il dolore. Era tutto ciò che aveva. Era tutto ciò che era.

E, una volta che avesse ricevuto quella risposta, risolto quell'interrogativo, allora avrebbe potuto dirsi in pace. E sarebbe potuta morire in pace, forse. Questo, come tutto a Zena, però, dipendeva dall'Alto Imperatore.

«Lady Kerol,» la salutò l'A.I., come a offrirle un caldo benvenuto.

Ma anche quel calore era fasullo, e Kerol non poteva comunque sentirlo. Non le servivano i suoi occhi per vedere le bugie. E quel tono dolce nascondeva un frastuono metallico. Lo nascondeva molto bene. Ma era un'illusione.

«Che cosa—»

«Lo sai.» lo interruppe Kerol, senza nemmeno specificare. Non ne aveva bisogno.

L'Alto Imperatore sfoderò un sorriso invisibile, ma non impercettibile. Un altro sibilo elettrico venne udito da Kerol, quello che era alla base dei marchingegni sotto le sue pallide guance di plastica, e che era unito a quello dell'inutile battito delle lunghe ciglia che incorniciavano i suoi occhi di vetro.

«Sai qual è la mia domanda.» continuò Kerol, raggiungendo il punto più vicino al trono che fosse a lei accessibile, e fermandosi a un passo dalla scalinata. «E conosci anche la risposta. So che mentisti, quel giorno. So che hai sempre mentito!» lo accusò.

«Io non sono stato creato per mentire agli Ember.» sostenne l'Imperatore.

«Eppure sembra che tu abbia imparato a farlo.» ribatté Kerol, senza il minimo rispetto. Non temeva le conseguenze. Se l'avessero condannata a morte, in effetti, le avrebbero fatto un piacere. Un piacere che attendeva da vent'anni.

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