Capitolo Diciassette

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Vinczel non aveva accettato di seguire la Djabel della Fenice. Aveva semplicemente smesso di opporre resistenza.

Tentare di combattere aveva procurato più danni a lui che ai suoi avversari. E ora erano tanti, troppo numerosi e troppo potenti per lui e la sua tigre.

La stanza che gli era stata riservata, al Palazzo di Noomadel, sembrava più quella di un principe che la cella di un prigioniero. Era tutto il contrario di ciò che si sarebbe aspettato. Vi era un letto a due piazze, che Vinczel non avrebbe dovuto condividere con nessuno, e nel quale doveva ammettere di essere riuscito a riposare non male, la notte precedente – era anche vero che era molto stanco.

Aveva a disposizione quattro cuscini, tutti per sé, tutti morbidi, due più grandi e due più piccoli, foderati di flanella bianca, con bordature dorate. Quasi tutto, in quella stanza, era bianco con inserti dorati.

Dalla destra del letto proveniva una luce – la porta finestra. Dava su un balcone, sul quale però Vinczel non aveva ancora osato avventurarsi, e che era incorniciato da tende traslucide bianche.

Di fronte al letto si trovava un enorme specchio, delimitato da una cornice dorata, nel quale il giovane si era riflesso non appena si era tirato a sedere, quella mattina.

I muri erano di un bianco più caldo, e agli angoli della stanza vi erano bordature di bronzo, che definivano gli spazi, e donavano eleganza all'ambiente.

Quando era arrivato a Noomadel, il giorno precedente, era già mattino inoltrato, nonostante a Neza fosse ancora notte. Il fuso orario che separava le due zone era di nove ore, gli aveva spiegato la Comandante, e sarebbe stato del tutto comprensibile se ci avesse impiegato diversi giorni per adattarsi.

Vinczel, però, si sentiva abbastanza riposato, nonostante non fossero ancora le dieci. Rimase per un po' a rimirare il lampadario barocco che pendeva al margine del letto. Se fosse caduto, con tutti quei cristalli che penzolavano dalle varie braccia, si sarebbe infranto in migliaia di frammenti taglienti, come quelli che vi erano sul pavimento dell'ospedale e per le strade di Wedenak, durante l'attacco degli Yksan.

Vinczel era ancora spaventato, e ora era rinchiuso nel covo del nemico. Non avrebbe mai potuto abituarsi. Il suo unico pensiero rimaneva fissato su come andarsene da quella prigione d'oro e di tulle.

Dei Megert si erano presi cura delle sue ustioni, proprio come avrebbero fatto all'ospedale di Wedenak. Avevano trattato anche i nuovi tagli e lividi che Vinczel si era procurato durante il suo tentativo di fuga. Non era nulla di troppo grave, ma i Megert lo trattavano come se dalla sua salute dipendesse il futuro dell'Impero di Noomadel. E, più di una volta, Vinczel si chiese se non fosse davvero così.

Con braccio e caviglia ancora fasciati, Vinczel camminava con l'aiuto di un tutore in grafene alla gamba destra, ma si ostinò a voler fare le scale, per scendere in soggiorno, dove la Comandante degli Yksan gli aveva chiesto di incontrarlo, quella mattina, prima di mezzogiorno.

Uscito dalla sua stanza, Vinczel prese le scale, e si aggrappò al corrimano, senza lasciarlo andare un secondo, mordendosi il labbro per evitare di lamentarsi dal dolore, e sforzandosi di camminare il più normalmente possibile, mentre i Megert continuavano a offrirgli di usare un'altra via, o di prendere l'ascensore.

Vinczel scosse la testa. Non poteva farlo. Doveva esplorare quel palazzo, e i propri limiti fisici. Doveva scoprire quali fossero le possibili vie di fuga. Un ascensore era una scatola dalla quale non poteva vedere nulla. E, anche ammesso che si trattasse di una teca di vetro come il discensore del Vuoto, prenderlo non lo avrebbe aiutato. Perché per azionare un ascensore ci sarebbe voluta una chiave, e quella chiave sarebbe stata di certo in possesso esclusivamente dei Megert e della Comandante.

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