Capitolo Quarantanove

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La porta del corridoio ovest delle prigioni di Noomadel cigolò all'ingresso del Comandante Lupo. Almeno una dozzina di occhi si alzarono, e si puntarono sulla sua figura. Alcuni erano terrorizzati, altri privi di vita. Ma ve ne erano un paio dai quali non trapelava altro che rabbia. Solean decise che avrebbe lavorato su quelli, e si avvicinò alla cella fredda e angusta nella quale si trovava una giovane Djabel, a gambe incrociate.

I prigionieri erano tenuti in celle disposte in lunghi corridoi lineari, come cavie per esperimenti. Ogni cella era larga quanto bastava per incastrarvi un letto, sul fondo, appena sotto una minuscola finestra di vetro satinato, dalla quale filtrava la debole luce del sole, di tanto in tanto. Vi era poi un ripiano, accanto alla porta composta da fitte sbarre di ferro, dove venivano scambiati i piatti vuoti con quelli nei quali veniva versata una qualche poltiglia, due volte al giorno. Una volta al giorno, poi, veniva ritirato il secchio che si trovava nell'unico altro angolo libero. Veniva svuotato, a volte nemmeno sciacquato, e ritornato entro mezz'ora.

Solean storse il naso, ma si costrinse a camminare, fino a trovarsi dal lato opposto delle sbarre rispetto alla giovane donna. Non doveva avere neanche vent'anni – era chiaramente un'adolescente – eppure già portava l'uniforme dei Paranx Ricognitori, seppur rovinata e stracciata in più punti. Doveva trattarsi di una dei Djabel che Rozsalia aveva recuperato nel Vuoto, dove le squadre dell'Accademia erano state mandate, a marzo. Quindi, capì Solean, quella ragazza si trovava in quella cella da circa sei mesi.

E nulla sembrava smuoverla. I carcerieri, che altro non erano che Megert incaricati di sorvegliare i prigionieri e somministrare loro dosi di calmanti o altre sostanze nel caso in cui fossero troppo agitati, gli avevano parlato di quella prigioniera come della più ostinata e aggressiva. Il modo in cui era sopravvissuta a tutti quei mesi di reclusione denotava la sua forte personalità, e la fiducia che doveva avere in se stessa.

Non sarebbe stata un'impresa facile, ma Solean era pronto al fallimento. Se non fosse riuscito a convincere lei, sarebbe passato a qualcun altro, e convincerlo gli sarebbe risultato più facile, voleva sperare. E sarebbe andato avanti in quel modo, fino a che non sarebbe riuscito a portare dalla sua parte anche solo uno dei Djabel che erano stati catturati.

La ragazza reagì alla vicinanza del Comandante tirandosi indietro, e aggrottando le sopracciglia. La sua pelle era più scura di quella di Solean, i suoi capelli castani dei ricci ingarbugliati e impossibili da definire. Emanava un odore terribile, di sudore misto a vomito e sangue.

Gli occhi di Solean scattarono verso il ripiano sul quale si trovava il piatto di metallo. La poltiglia verdognola che avrebbe dovuto essere il suo pasto era rimasta intoccata – non stava mangiando. Inoltre, sul materasso giallognolo del letto vi era una macchia di un rosso scuro, che nessuno si sarebbe mai curato di pulire.

Le iridi castane della giovane donna non tentarono di fuggire da quelle dorate di Solean. Non si vergognava di nulla. Era fiera di essere ancora viva, di essere riuscita a resistere al nemico.

Ora ciò che Solean doveva fare era convincerla di non essere il nemico. E l'impresa si prospettava più ardua di quanto avesse mai potuto pensare.

Era strana, gli avevano detto i Megert. Aveva continuato a ripetere che non sarebbe mai stata una Yksan, forse per convincere se stessa a non piegarsi ai suoi nemici. Solean avrebbe quindi dovuto puntare sull'indurla a credere che non sarebbe mai stata una Yksan, ma ancora una combattente dell'Impero. E non era una bugia.

«Così tu non sarai mai una Yksan, non è così?» cominciò a dire Solean. Utilizzò il tono più simile a quello che ricordasse appartenere all'Alto Imperatore, e la osservò dall'alto, appoggiando la schiena al muro opposto del corridoio.

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