Capitolo Ottanta

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«Hai mai sognato a occhi aperti?» chiese il ragazzo, rigirandosi nel sacco a pelo.

Annekha non capì. «A volte, quando le lezioni erano troppo noiose.»

Vinczel ridacchiò. «Quello l'ho fatto anch'io.» confessò, «Ma da quando sono venuto qui nel Vuoto, quella di sognare a occhi aperti è diventata un'abitudine. Un'abitudine notturna. Questo è uno dei momenti migliori. Apri gli occhi, e ti sembrerà di entrare in un sogno. Te l'assicuro.»

Annekha, che fino ad allora aveva tenuto gli occhi chiusi, provò ad aprirli. Vide prima il volto di Vinczel, che si era voltato, e aveva a sua volta riaperto gli occhi. Si lasciò arrossire, ma poi spostò lo sguardo. Ovunque, ma non sui suoi occhi.

Venne attratta dal suo sorriso, ma poi si concentrò sullo sfondo – il resto della caverna. Vedeva a malapena qualche riflesso sfocato della luce bianca della luna che colpiva le pietre più chiare e lucide. Ma era vero. Era come aveva detto Vinczel. Tutto sembrava un sogno.

Ma non era simile al sogno di Djric – quella era un'illusione. Quello di Vinczel era più freddo, più buio, più ambiguo. La lasciava immaginare. Glielo permetteva. Le dava una sorta di libertà.

«E che cosa sogni, a occhi aperti, qui nel Vuoto?» chiese lei, ancora persa nei particolari e nei riflessi.

«Vorrei davvero potermene andare via.» rispose lui, sincero.

All'inizio, Annekha rimase ferita dalle sue parole – nonostante tutto, sembrava preferire ancora la propria felicità a quella di lei. Non sembrava nemmeno innamorato.

Poi, però, Vinczel riprese a parlare. «Con te.» aggiunse, «Perché se è per te che devo morire, non potrò evitare di starti vicino. Ma fino a quel giorno, non voglio doverti temere.»

E, questa volta, le sue parole ebbero l'effetto opposto, su di lei. Sentì una sorta di calore, come una fiamma che si fosse appena accesa nel suo petto. Ed era come se essa stesse irradiando tutto il suo corpo, e i suoi dintorni, e le avesse fatto dimenticare il freddo di quella notte invernale.

«Conoscevi il sogno dei nostri genitori?» chiese Vinczel, «O meglio, di tua madre e di mio padre?»

«Sì.» confermò Annekha, «Andare a Keja.»

«Dove il sole tramonta a est e sorge a ovest.» continuò Vinczel, «Dici che lì saremo abbastanza lontani dall'Impero, se davvero la prossima guerra sarà contro i Djabel?»

«Credo di sì.» disse Annekha.

«Sai, Anne, credo che il desiderio di raggiungere Keja sia una delle poche cose che ho ereditato da mio padre, insieme al colore dei capelli.» commentò Vinczel, sogghignando lievemente, riecheggiato dalla giovane.

«Spero di sognarlo.» mormorò Annekha, come se fosse una preghiera fatta a se stessa, al suo inconscio, perché le lasciasse sognare, e allontanasse gli incubi di Magastor.

«Anch'io.» le fece eco Vinczel, «Sai, mia zia riesce in qualche modo a controllare i sogni. La invidio, per questo.»

«Lo so.» disse Annekha, «E, onestamente, la invidio anch'io. La invidiano tutti, credo.»

«E le hai chiesto come faccia, quando l'hai interrogata?» chiese ancora il giovane.

«In effetti l'interrogatorio non era incentrato su questo.» si difese lei, sorridendo.

«Ah, capisco.» disse Vinczel, «Ma un giorno devo proprio chiederglielo. Voglio che me lo insegni.» decise, sistemandosi meglio sul fianco, e preparandosi a dormire. Era come se stesse per scendere sul campo di battaglia.

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