Capitolo Cinquantatré

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Annekha ebbe bisogno di qualche secondo, per abituare gli occhi all'oscurità. Il risveglio per lei non era mai stato così tetro, neanche nelle più uggiose mattinate. Neanche quelle rare volte in cui si era svegliata prima dell'alba, per andare al fronte, insieme a suo padre.

Ma quelli erano ricordi, ormai. Non potevano essere nient'altro che ricordi, ormai. Era morta, dopotutto. No?

A fatica, voltò la testa dal lato opposto. Le ossa le facevano male. Solo allora capì che doveva essere sdraiata, su un materasso molto duro, o forse persino sul terreno. Qualcosa la teneva ferma a terra, oltre al dolore alla gamba. La avvolgeva, senza stringerla, ma limitava i movimenti delle sue membra intorpidite dal sonno, dal freddo, e dal dolore.

E allora, strizzando gli occhi, vide una luce provenire da un angolo della sua visuale. Non era tanto forte da illuminare i suoi dintorni, ma era abbastanza per delineare una figura. Un uomo, forse. No, forse era una donna. Non riusciva a capire.

Un'Arpia, pensò Annekha, ricadendo nel panico. Ciò che aveva visto era ancora fisso davanti a lei, come inciso all'interno delle sue palpebre, e ogni volta che chiudeva gli occhi, era lì. L'Arpia che l'aveva ferita, il suo viso smunto, i suoi capelli radi, che andavano a unirsi alle piume sul suo collo, alle penne sulla sua schiena, e le sue enormi ali di rapace, ferite e sgualcite come le vele di un'antica nave.

Che rapissero le loro prede e le divorassero pian piano nelle loro caverne? Perché quella in cui si trovava doveva essere una caverna. Doveva trovarsi ancora nel Vuoto, ed ecco spiegato il pavimento duro sul quale stava poggiando la schiena.

Aveva ancora entrambe le gambe?, si chiese. Annekha tastò rapidamente, per trovarle, tutte e due, dove dovevano essere. Sospirò di sollievo, e capì che ciò che l'avvolgeva era in realtà un sacco a pelo. Allora non era stata un'Arpia, a condurla in quel luogo, in quella caverna.

La figura accanto a lei si mosse, entrando nella zona illuminata. E quando la riconobbe, Annekha si rilassò, e appoggiò la nuca sul margine morbido del sacco a pelo.

Vinczel sorrise, quando la vide riaprire gli occhi. Si allungò verso destra, agguantando una lanterna, vicino allo zaino, e la accese. La luce era fioca e gialla, e sul vetro si potevano vedere diverse rigature, e i rimasugli di qualche moscerino o zanzara. Quella lanterna doveva averlo accompagnato nel Vuoto per molto tempo, prima di allora.

Il primo istinto di Annekha fu di ricambiare il sorriso del giovane e ringraziarlo per averla salvata, il secondo di prenderlo per i capelli e tirargli un pugno dritto sul naso per essere fuggito. Ma non aveva la forza di fare nessuna delle due cose.

Si limitò a sbattere le palpebre più volte, nel tentativo di mettere a fuoco l'immagine di Vinczel, ma servì a poco. I suoi occhi neri erano ancora due cerchi indistinti, nascosti tra i ciuffi scompigliati dei suoi capelli.

Poi, però, lui si avvicinò, e Annekha riuscì a distinguere i particolari del suo volto – le imperfezioni della sua pelle, le crepe sulle sue labbra, date dal freddo, e la barba ispida che il ragazzo non aveva avuto motivo di radere. E poi la sua mano, che ora si stava avvicinando al viso di lei.

E ora era fin troppo vicina.

Vinczel si stava abbassando su di lei, e il cuore di Annekha aveva cominciato a battere all'impazzata. Poteva sentire la ferita alla gamba pulsare ancora. Forse il sangue aveva ricominciato a sgorgare. Doveva calmarsi. No, era Vinczel a doversi fermare.

La sua intenzione si rivelò poi essere soltanto quella di accarezzarla. Anzi, nemmeno. Tutto ciò che Vinczel stava facendo era controllare la temperatura della sua fronte. Poi, in un gesto apprensivo, scostò una ciocca di capelli che copriva il suo viso.

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