XXXVII. Il centro del mondo

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«Alberto, il cane.» Vittoria fulmina il suo migliore amico con lo sguardo, intimandogli di restituirle il suo nuovo animale domestico, rimasto a Milano perché portarlo in Brasile sarebbe stato un suicidio.
«Prima il regalo.» si impunta lui, inamovibile.
«Non meriti un regalo di ringraziamento, se non posso avere la certezza che ciò per cui eventualmente devo ringraziarti stia bene.» l'allenatrice allarga le braccia. «Ginni, sei gobba, hai le spalle chiuse. Togli quella maglia, per favore.» torna a guardare la ballerina che ha davanti.

«È una questione di testa, apri. Quante volte te l'ho già detto?» si alza e le mostra le correzioni da mettere in pratica, eseguendo il passaggio in prima persona con una precisione notevole. «Adesso aprile e vai, dobbiamo procedere. Basta pirouettes così, non ti voglio più vedere con le spalle chiuse, né voglio che tu ripeta sempre gli stessi errori, altrimenti non progrediamo mai.» applaude leggermente quando nota che Ginevra le dà ascolto.
«E poi questo en dehors...» inizia l'altra.

«Esatto, devi tenerlo un po' più morbido per poi fare quello.» Vittoria annuisce. «Non impinocchiarti con quelle braccia lì, meno rigida e legnosa... brava.»
«I tuoi neologismi!» Alberto ride.
«Il mio cane, più che altro.»
«Che pesantezza.» il ragazzo sbadiglia, uscendo dalla scuola di danza insieme a lei. «Cary Carogna al tuo servizio.» indica la sua fidanzata, che li ha raggiunti con tanto di beagle al seguito.

«Ma oh!» sbraita la juventina, scagliandogli addosso il pacco regalo prima di abbassarsi sulle ginocchia per poter salutare il cucciolo che, felice di rivederla, la riempie di feste. «Ciao bellissimo, sì, sì.»
«La maglia di Esteban Matías Cambiasso Deleau da Buenos Aires, Argentina? Autografata? Svengo!» Alberto si porta una mano sulla fronte e finge di accasciarsi contro la parete dell'edificio.
«Sì, vabbè, mica volevo ucciderti quando l'ho presa, anche meno.» borbotta la juventina.

«È già tanto che non abbia detto vengo.» lo prende in giro la sua ragazza, che Alberto prontamente colpisce con la carta regalo appallottolata. «Domani esci con Bryan?» domanda poi a Ginevra, appena uscita dagli spogliatoi dopo una breve doccia.
«Ah, è in libertà vigilata?» Vittoria si rivolge alla più piccola, che storce il naso. All'allenatrice non è mai andata giù la cotta che s'è presa la ballerina per quel tizio, non il più raccomandabile del mondo. Sa di non poterci far nulla, però ci prova.

«Hai finito di bocciarmeli tutti?»
«Non è colpa mia se sono tutti bocciati. Cosa andate a fare, una rapina in banca o un furto con scasso?»
«Non ti rispondo neanche.»
«Quando capirai che sei solo una delle tante...»
«Le altre non mi preoccupano.»
«Infatti dev'essere lui a preoccuparti. Sei così ingenua che mi verrebbe voglia di abbracciarti un po'. Non sarai mai quello che lui è per te.» afferma la più grande, assolutamente certa di ciò che dice.
«Come se tu lo sapessi.»

«Io lo so ma, alla fine, è anche giusto che tu ci sbatta la testa.» Vittoria fa spallucce. «Io e Bryan ci conosciamo, anche perché qua ci si conosce tutti.»
«Non vi parlate seriamente da anni, Vittoria.»
«Non ci parliamo seriamente da 13 anni, per la precisione, da quando l'ho colpito in faccia con gli scarpini con i tacchetti di ferro dopo che mi ha rotto un polso pestandomelo al torneo di calcetto dell'oratorio. Sulle uscite, soprattutto in tuffo, il portiere è intoccabile, lo sanno anche i muri.»
«Non è bastato a raddrizzargli il cervello.» interviene Alberto, lasciandosi sfuggire una risata.

«Questa mi manca!» esclama Sara, che non è cresciuta con loro, perdendosi un sacco di cose.
«Eh, vincevamo 3-2, lui "bomber" dell'altra squadra, io in porta, ad un niente dal 90º c'è una mischia in area, io paro, lui mi uccide, l'arbitro gli dà il rosso e la rissa che ne scaturisce è storia.» l'allenatrice abbozza un sorrisetto malefico. «Ce ne siamo dette di ogni, abbiamo continuato anche negli spogliatoi, soprattutto noi ragazze, sparlare mentre ci si cambia è un must, lui ovviamente ha sentito, anche perché io non ho di certo abbassato la voce...»
«L'iconicità di quella discussione.» Alberto ride.

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