Capitolo 8 (Charlie - Presente)

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Un dolore lancinante e improvviso le accese tante piccole scintille dietro le palpebre serrate.

Charlie si appoggiò per istinto alla parete più vicina quando il rumore del suo piede, che impattava contro il legno duro del mobiletto, si espandeva per l'ingresso, trasformandosi in una stilettata acuta che in un attimo le avvolse le ossa della gamba.

«Cazzo!» imprecò, dando una spinta all'oggetto, le cui gambe si lamentarono contro il pavimento.

Di chi era stata la brillante idea di mettere lì quel dannato coso?

Quella casa le era diventata così poco familiare da non riuscire a muoversi con sicurezza al suo interno, nella completa oscurità. Era come camminare su un terreno incerto, con la consapevolezza che sarebbe potuta incappare in una serie di trappole e tranelli invisibili. Nonostante questo, non aveva acceso la luce.

Quando era schizzata via dall'auto si era lanciata vero la porta d'ingresso senza fare caso a niente, né alla totale oscurità che avvolgeva la casa, né alle voci delle sue amiche che le chiedevano di voltarsi indietro.

Avevano tentato di parlarle in quell'agonia di tragitto che dalla Baia le aveva riportate in città, ma per Charlie non erano stati che lontani brusii nella mente confusa. Le poche lacrime che l'avevano tradita sulla spiaggia si erano seccate, ma la voce non aveva voluto saperne di tornare, né quando loro le avevano domandato se stesse bene né quando le avevano proposto di passare la notte insieme, come tante volte avevano fatto. Si era limita a scuotere la testa, facendo capire loro di voler tornare a casa.

Non che volesse davvero tornare a casa sua, semplicemente non aveva le energie per un'intera notta di sguardi preoccupati e compassione, o per fingere che tutto andasse bene.

Non ce l'aveva con le sue amiche, era stata lei a voler andare su quella dannata spiaggia, a quella dannata festa, ma dopo le conseguenze disastrose di quella decisione voleva restare da sola.

Nonostante il burrascoso incontro ravvicinato con quel mobiletto in legno, accolse il silenzio e il buio della casa come una benedizione e tentò di convincersi che le lacrime, che di nuovo le stavano pungendo gli occhi, fossero state causate dall'impatto.

Stese le braccia davanti a sé, il contorno delle dita appena distinguibile, camminando a tentoni nell'ingresso semisconosciuto. Qualche altro pezzo d'arredamento ebbe di che ridire del suo passaggio e quando finalmente riuscì a raggiungere il corrimano credette di essere al sicuro, la promessa della sua stanza solo a pochi gradini, quando al margine del suo campo visivo si accese una luce.

«Charlie?»

Chiuse gli occhi e tirò su aria in silenzio.

Avrebbe potuto ignorare quel richiamo, urlare da lì che era stanca e che aveva voglia di andare a dormire e che qualunque cosa dovesse dirle poteva aspettare la mattina.

«Charlie!» Il richiamo fu più perentorio. Un ordine appena celato di aprire gli occhi e rispondere.

Si mosse prima ancora di rendersene conto razionalmente, la luce sempre più vicina che le rendeva più facile il cammino. Pallida, colava dai mobili, contendendosi il possesso dello spazio con l'oscurità.

La vista divenne un miscuglio di lampi bianchi e accecanti, che la costrinsero ad abbassare la testa al pavimento. Quando sbatté le palpebre, sottili lacrime si andarono ad aggiungere a quelle già secche sulle guance e a quel sentore di pelle che tirava ebbe la tentazione di riabbassare la testa, per un motivo completamente diverso, stavolta.

Seduto di fronte a lei, al lato più estremo del lungo tavolo da pranzo, Maxim la osservava in silenzio, mollemente adagiato contro lo schienale, un braccio piegato sul tavolo. Un'ombra volteggiava sulle sue labbra, velando il ghigno che ostentavano i suoi occhi.

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