l sole sta appena tramontando, un bagliore rosso attraversa le tende pesanti dello studio, tingendo la stanza di un'ombra cremisi che mi avvolge come un relitto. Mi appoggio alla finestra, il vetro freddo contro il palmo, e sento il peso del giorno gravarmi sulle spalle, un macigno che mi schiaccia il petto e mi fa tremare le mani. L'aria è densa, carica dell'odore di cera delle candele che sfrigolano sui candelabri e del fumo acre che si leva dal camino, un profumo che mi soffoca mentre il cuore martella contro le costole, un ritmo selvaggio che non riesco a placare. Mia madre, la contessa Matilde, siede al centro della sala, rigida come una statua di marmo, il volto pallido incorniciato da un abito nero di seta lucida che riflette la luce tremula delle fiamme. I suoi occhi, due pozzi di ghiaccio che non tradiscono nulla, mi scrutano con una freddezza che mi lacera più di qualsiasi affronto, un'indifferenza che mi trafigge l'anima e mi lascia sanguinante. Mi chiedo se sia umana, se sotto quella maschera di controllo ci sia mai stato un cuore, o se sia solo un'ombra di ciò che una madre dovrebbe essere, un vuoto che mi ha cresciuto con la durezza di chi vede nei figli solo pedine da muovere su una scacchiera.
La porta si apre con un leggero scricchiolio, un suono che taglia il silenzio come una lama, e mia cugina Elise irrompe nella stanza, il viso illuminato da una gioia radiosa che mi colpisce come un raggio di sole in questa tenebra. «Alessandro, è nato!» La sua voce è un soffio di vita, un'esplosione di calore che squarcia il gelo che mi circonda, e io mi volto, il respiro che si ferma in gola. «Il marchese è nato!» Le sue parole mi travolgono, un'onda che mi sommerge di meraviglia e paura, e i miei occhi si riempiono di lacrime che non riesco a trattenere. Pietro, accanto a me, scoppia in un pianto disperato, un fiume di emozioni che trabocca e mi travolge: mi abbraccia con una forza che mi spezza, le sue mani che tremano contro la mia schiena, il suo viso premuto contro la mia spalla come se cercasse in me un'ancora per non annegare nella gioia e nel terrore. «Tuo figlio!» gli dico, la voce che si incrina, un sorriso tremante che mi tira le labbra mentre le lacrime mi rigano le guance. «Tuo figlio!» Ogni sillaba è un grido di felicità e angoscia, un amore che mi brucia il petto e mi fa tremare, ma quando alzo lo sguardo verso mia madre, lei non si muove. Rimane rigida, una statua scolpita nel gelo, il volto impassibile come se le mie parole fossero vento freddo contro la sua pelle di marmo. Stringe una lettera tra le mani guantate, le dita che la accartocciano con una precisione che mi gela il sangue, ma non la legge, non reagisce. È un dipinto sbagliato, un quadro di vita e morte che si scontra con la sua indifferenza, e io mi sento crollare, un uomo spezzato tra la luce di questa nascita e l'ombra del suo disprezzo.
Pietro, sopraffatto, si stacca da me e corre su per le scale, i suoi passi che echeggiano sul marmo come un tamburo che mi rimbomba nel cranio. Lo seguo con lo sguardo, il cuore che mi martella contro le costole, e quando entra nella stanza di Amalia, la scena che si apre davanti a me è un contrasto che mi trafigge. La luce è diversa qui, morbida e calda, un bagliore che filtra attraverso le tende di lino e illumina le lenzuola bianche, fresche di lavanda, che avvolgono mia sorella. Amalia giace addormentata, esausta ma serena, il viso pallido incorniciato dai capelli scuri sparsi sul cuscino, un'immagine di pace che mi stringe la gola. Accanto a lei, in una culla ornata di pizzi fini come ragnatele, c'è il piccolo Alessandro, appena nato, un fagotto di vita che respira piano, le manine chiuse a pugno contro il petto. Pietro si inginocchia accanto alla culla, le lacrime che gli rigano il viso mentre tende una mano tremante per sfiorare quel miracolo, e il suo singhiozzo soffocato mi spacca il cuore. È nato tra le braccia di una madre che lo ama, tra le lacrime di un padre che lo ha desiderato con ogni fibra del suo essere, tra le risate silenziose di una zia che lo proteggerà fino all'ultimo respiro. È nato circondato dall'amore, un amore che brilla come una fiamma in questa stanza, e io mi fermo sulla soglia, il petto che si stringe fino a farmi male, perché quel calore mi ferisce più di qualsiasi lama. Io sono nato nello stesso sangue, nello stesso dolore, nello stesso destino, ma non ho mai conosciuto quel calore, quel battito di vita che accoglie un figlio. Io sono stato un peso, un segreto, una colpa.

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HO DETTO AMORE - Il ciondolo segreto -
Historical FictionLa storia è in editing strutturale completo. Sarà ripubblicata a settembre 2025. Torino, 1850. Può un amore sopravvivere quando il mondo lo condanna? Può un sentimento bruciare senza essere mai pronunciato? Alessandro Crepuett, giovane aristocratic...