Il carcere - Ray Dwight

1.4K 145 61
                                    

Impiegammo un paio d'ore a raggiungere il penitenziario di Stonewall.
Durante il tragitto parlammo delle varie piste da seguire che si stavano spianando di fronte a noi.
Sapevamo che se Ray Dwight non era mai uscito da quel carcere non avrebbe potuto uccidere quelle ragazze durante tutti quegli anni. Ma io non avevo alcun dubbio. Quel ciondolo, proprio quello, era nelle sue mani durante il processo al quale avevo testimoniato prima che venisse condannato.

Quando il penitenziario si stagliò di fronte ai nostri occhi era ormai mezzogiorno. Nevicava anche a Stonewall, e l'aria sembrava ancora più fredda di quella di Virginia.

Seguimmo tutte le procedure necessarie affinché potessimo entrare, e dopo un paio di telefonate Miller fu accompagnato di fronte al cancello che conduceva alle celle.
Ci trovammo di fronte a un paio di guardie e fummo raggiunti dal direttore, Jordan Cage. Era un uomo sulla cinquantina, calvo e robusto.
Ci presentammo, poi Miller gli chiese informazioni su Ray Dwight.
<<Non è certo quello che possiamo definire un detenuto modello>> disse Cage <<anzi, l'opposto.>>
Fece una pausa, avvicinò agli occhi dei fascicoli che teneva tra le mani e poi riprese a parlare.
<<Condannato nel 2006 per aggressione aggravata. Sarebbe dovuto uscire qualche anno fa, poi ha accoltellato un detenuto, Nathan Bold. Non l'ha ucciso ma gli hanno dato altri dieci anni. Quindi direi che il vostro uomo ci farà compagnia ancora per parecchio tempo.>>

<<Dov'è adesso?>> chiese Miller.
<<Ci sta aspettando nella sala dei colloqui. Non so quanto vi sarà utile parlare con lui. È una persona diversa, se capite che cosa voglio dire. E c'è qualcosa di malato, credo, in lui.>>
<<D'accordo>> rispose Miller <<ci accompagni.>>

Il direttore Cage annuì e ci fece strada. Arrivammo alla sala dei colloqui, una grande stanza riscaldata, con doppi vetri a dividere i detenuti dai visitatori.

Lo riconobbi subito anche se erano trascorsi oltre dieci anni da quando l'avevo visto per l'ultima volta.

<<Eccolo>> disse Cage, indicando Dwight con un cenno del capo.
Lo ringraziammo e ci dirigemmo verso di lui.

Ci sedemmo davanti al vetro divisorio e lo studiammo per qualche secondo. Era alto, robusto, muscoloso. Aveva la testa rasata e molti più tatuaggi di quando l'avevo conosciuto io.
Sulla nuca, luccicava un'enorme croce nera. Su entrambi gli avambracci aveva invece un grosso fuoco disegnato. Come un incendio. Sul collo, un'infinità di teschi. Ma il tatuaggio più strano era forse quello che aveva sulle dita delle mani. Sulla sinistra, una lettera per ogni dito, fino a formare la parola "flame". Fuoco, fiamma, incendio. Sulla sinistra, sempre una lettera per dito, a formare "burns".

Brucia.

Fuoco brucia.

Fu Miller a parlare.

<<Ciao, Ray. Non ci conosciamo. Mi chiamo Hart Miller, e lavoro per la il dipartimento di polizia di Virginia. Vorrei farti qualche domanda, se per te va bene.>>

Lui non rispose. Fece un sorriso e una luce strana si impossessò dei suoi occhi.

<<Non ci conosciamo, no. Ma lui... lui sì. Lo conosco. Lo conosco bene.>>

Guardò me. Mi guardò diritto negli occhi e quello che sembrava soltanto un brivido ingestibile si trasformò in una sensazione di profonda angoscia.

Mi aveva riconosciuto? Ricordava davvero il mio viso, dopo tutti quegli anni?

<<Che coraggio che avete avuto a portarmelo qui. Non parli, perché i morti non parlano. E tu sei uno di loro. Sei uno dei morti.>>

Ryan e Miller mi guardarono, poi Ryan si avvicinò a lui, facendo in modo che Miller si spostasse.

<<Conosci il nostro amico, Ray?>> gli chiese, guardandolo negli occhi.
<<Non so chi tu sia, stronzo, ma sì. Lo conosco. È un morto che cammina. Bianco. Bianco per sempre.>>

Mi guardò ancora e poi sorrise.
<<Non ascoltarlo>> mi disse Ryan, avvicinandosi ancora di più al vetro che ci separava da lui.

Miller stava per fare qualcosa, ma Ryan lo anticipò.

<<Abbiamo bisogno di sapere qualcosa da te, Ray. Qualcosa riguardo un ciondolo con due mezze lune incise sopra. Due mezze lune che si incrociano, e formano una specie di croce. Come quella che ti sei fatto disegnare sulla testa.>>

L'espressione di Ray cambiò. Il suo viso sembrò diventare più rosso, gli occhi gli si iniettarono di sangue. Come se Ryan avesse parlato di qualcosa di cui non avrebbe mai dovuto parlare.

<<Sembri arrabbiato adesso, Ray. Che cosa c'è?>>
Rimase ancora in silenzio. Fissò il vuoto, poi ignorò Ryan e tornò a guardare me.

<<Tu cammini nella valle dei morti. Cammina, cammina, cammina per sempre. Li vedi, che corrono, e ridono, e giocano. Le vedi. Le vedi così bene. Tutte quelle belle ragazze, tutte laggiù. Le vedi perché sei come loro. Morto anche tu.>>

Pronunciò quelle parole assurde senza staccare mai gli occhi da me. Le pronunciò cantilenando. Con una voce acuta. Quasi infantile. Mi tornò in mente la voce che avevo sentito nella notte qualche tempo fa, fuori dalla porta del mio appartamento.
Cercai di rimanere lucido, perché sapevo che poteva essere tutto un lavoro della mia testa, un'associazione irreale di pensieri. Ma lui mi guardò in un modo così intenso che sentii il sangue congelarsi nelle vene. Ero paralizzato. Non sapevo che cosa fare, che cosa pensare o che cosa dire. E non era soltanto per ciò che aveva detto. Era per il modo in cui l'aveva detto.

<<Di che cosa stai parlando, Ray?>> gli chiese Ryan, portando il viso a un centimetro di distanza dal suo <<quali belle ragazze?>>

Ray Dwight abbassò la testa. Rimase piegato a lungo verso il pavimento, immobile. La croce nera sulla sua nuca, adesso, si stendeva in tutta la sua grandezza di fronte a noi.

<<Di quali ragazze stai parlando, Ray?>> gli chiese ancora Ryan, alzando la voce.

Lui, con calma, tornò a guardarci.

Sorrise.

La ballerinaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora