Destinazione Italia

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Impiegammo un paio d'ore per raggiungere l'aeroporto di Harrisburg. Il nostro volo sarebbe partito per l'una del pomeriggio, il che significava una discreta attesa.
Quello di Harrisburg era un aeroporto piccolo, ma gestiva tanti voli internazionali.
Avremmo impiegato più di dieci ore a raggiungere l'Italia, e saremmo atterrati a Roma verso mezzanotte. Da lì, avremmo preso un treno ad alta velocità per raggiungere Torino e quindi, infine, Valenza.

Non avevamo molto in mano se non le sigle incise sul ciondolo: S.C. Orefici, 1986 - e poi il nome della città.
Era poco, ne eravamo consapevoli, ma sia io che Ryan avevamo imparato a non sottovalutare mai i dettagli. Spesso, i più insignificanti celavano radici tanto oscure quanto pericolose.

Una volta a bordo raggiungemmo i nostri tre posti vicini accanto all'ala destra. Il mio era in mezzo, tra Ryan e Marianne.
Ero felice che avesse deciso di venire con noi. Non vedevo quel viaggio in Italia soltanto come un modo per arrivare a qualche indizio in più nel caso che stavamo seguendo. Nel mio cuore, anche se giocavo a rinnegarlo, si trattava di una nuova possibilità per recuperare ciò che con lei avevo perduto.

L'aereo prese velocità sulla pista; poi, quando fu arrivato al massimo, di colpo si alzò ed io, come sempre durante un decollo, sentii lo stomaco arrivare in gola.
Chiusi gli occhi, e quando li riaprii potevo già scorgere il mondo rimpicciolito sotto di noi.

Ripensai alla conversazione che avevo avuto con Miller in mattinata. Gli avevo raccontato ciò che pensavo della lettura del labiale di Gloria Stewart; del fatto che ero certo che il nome che pronunciava fosse quello di Ray Dwight. Lui mi aveva detto che avrebbero svolto tutti i controlli necessari e che era intenzionato a tornare in carcere da Ray.
Avrei voluto essere presente anch' io durante la seconda visita.

Guardai Ryan, mentre Marianne aveva appoggiato la testa contro il sedile e chiuso gli occhi.

<<La luce nel suo sguardo... era il male.>>

Ryan pronunciò quelle parole in un filo di voce, quasi come se stesse parlando da solo, ed io lo guardai in silenzio.

<<Ray Dwight>> disse, con lo sguardo rivolto verso il basso.

<<Che cosa intendi?>> domandai.

Lui esitò per qualche istante prima di rispondere. Come se stesse pensando se farlo oppure no.

<<L'ho vista tante volte, in passato>>, disse infine, <<quell'espressione. Quella luce nera. L'ho trovata negli occhi di chi era colpevole, e sapeva di esserlo. Chi era compiaciuto per il male. Chi viveva nel male.>> Si interruppe, poi riprese: <<assassini, pedofili, usurai. Gente che uccide per follia e altri che lo fanno seguendo un piano, o un istinto, o un bisogno. Denaro, droga, disperazione. Ma alla fine, ad accumunare tutti, c'è sempre e soltanto una cosa. La luce che si portano negli occhi. È tutto così semplice. È tutto scritto lì, sui loro volti.>>

Appoggiò la testa contro il sedile e smise di parlare. Quando riprese, disse una cosa che, per qualche ragione, mi sarebbe rimasta impressa per sempre.

<<L'ha uccisa lui, Ethan. Mia figlia, Melissa. È stato lui. È stato Ray Dwight a portarmela via.>>

Chiuse gli occhi, poi li riaprì. Fissò lo sguardo sul panorama freddo e innevato della Pennsylvania sotto di noi.

<<Lo so, Ethan>> disse, in un sussurro pieno di malinconia e rabbia al tempo stesso. <<Io lo so.>>

Lo guardai ancora una volta. Annuii, mentre l'aereo che ci avrebbe portati in Italia prendeva velocità tra le nuvole intorno a noi.

La ballerinaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora