#Jasper

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Voglio iniziare i capitoli bonus con il punto di vista di un personaggio che mi è sempre stato molto a cuore. L'ho costruito e presentato come antagonista, ma la sua storia rivelerà la verità dietro a quella maschera che ha sempre indossato.

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#Jasper

Se mi chiedessero di raccontare la mia vita non so esattamente da dove comincerei.

Non so qual è stato l'esatto momento in cui ho cominciato realmente a vivere e a smettere di sopravvivere.

La mia città? Los Angeles, la città degli angeli, eppure un angelo non lo sono mai stato, e di angeli, da quelle parti, non ne ho mai incontrati.

Ho avuto il "piacere" di conoscere l'inferno già a due anni e mezzo. Le persone di cui mi sarei dovuto fidare ciecamente si rivelarono il diavolo in persona.

Mio padre, il diavolo. Mia madre, il suo complice.

Penso che lo trovassero divertente. Dovevo immaginare che quella polverina bianca non fosse polvere di fata. E che neanche quelle bottiglie colorate fossero pozioni magiche.

Dovevo immaginare che le cose che facevo con mio padre non erano normali, che il modo in cui mi toccava, accarezzava, ed altro che non starò a raccontare, non erano frutto di un innocente gioco per bambini. Dovevo immaginare che mia madre non mi avrebbe salvato, quando il dolore diventava insopportabile e supplicavo di voler smettere di fare quello che loro chiamavano "un gioco divertente". Dovevo immaginare che mi sarei dovuto tenere a debita distanza da loro quando erano troppo arrabbiati...o ubriachi...o drogati, per non rischiare di finire, per l'ennesima volta, nascosto sotto il letto a piangere, con un'ulteriore ferita da nascondere.

Subivo ogni giorno violenze di vario genere, ma la vera domanda che mi ponevo era: lo merito? Questo, si chiedeva un giovane me, alla semplice età di 7 anni, quando la situazione andava precipitando sempre di più.

Ma il mio caso fu uno dei tanti. Fu uno dei tanti che rimase in silenzio per anni, fino a quando non raccontai tutto ai tempi del liceo, ormai stremato dalle violenze psicologiche e fisiche a cui non riuscii mai ad abituarmi. Fui "adottato", o forse meglio dire, preso in custodia dai genitori della mia migliore amica. Fu cosi che il mio caso fu archiviato e dimenticato, come se nulla fosse, come se il crollo subito potesse curarsi con una semplice incarcerazione.

Fui dato in mano ad uno psichiatra, o forse era uno psicologo, o forse era uno psicanalista, o forse ero in mano a tutti quanti insieme. Ma non era quello che cercavo. La mia storia già si conosceva, non avevo bisogno di parlarne ulteriormente con qualcuno. Non volevo archiviare, dimenticare, rimuovere e nascondere quella storia in una qualsiasi parte remota del mio cervello. Ma allo stesso tempo non avevo neanche più voglia di parlarne apertamente con uno sconosciuto.

Lui non poteva capire. Ed io non potevo, o forse, non volevo andare avanti e dimenticare. Forse volevo, di mia spontanea volontà, rimanere la vittima della situazione.

Iniziai a costruirmi una specie di corazza, che si rafforzò con la mia prima delusione d'amore.

Cercavo affetto, non ascolto o parole.

Mi scioglievo al semplice tocco di una carezza, di un sorriso sincero, di un dolce bacio sulla guancia.

Stella era l'unica persona in grado di farmi sentire a casa, al sicuro.

Non avevo paura delle sue mani, non le ho mai temute.

Fare l'amore con lei mi rigenerò ed uccise totalmente nello stesso momento.

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