Aiuto inaspetato

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Nell'avvertire il proprio corpo venire colpito e trapassato da quella strana luce che nemmeno aveva avuto il tempo di evitare, Sayuri si era sentita sollevare da terra e subito il soffitto bianco che aveva potuto mirare per pochissimi attimi era divenuto nero insieme alla sala, ai marine e a tutto ciò che al momento dell'impatto la circondava; ogni senso e percezione si era dissolto come la sua coscienza e il suo corpo, entrambi annullati da una forza sconosciuta. Era logico che dopo quell'attacco improvviso, non avesse udito le urla disgustate di Jimbe, così come non aveva udito i suoi pugni, la voce adirata di Sengoku e di come il piccolo caos creatosi fosse stato sedato senza l'intervento di un intero battaglione.

Non c'era stato modo di pensare o di agire: tutto si era svolto così rapidamente che neppure lei se ne era capacitata. Aveva la sensazione di levitare nel vuoto, di aspettare qualcosa che la facesse uscire da quel posto - se tale poteva definirsi - , dove ogni secondo si disperdeva dietro l'altro esattamente come le domande che a fatica era riuscita a formulare. Dove l'avevano portata? Che cos'era capitato al sommo Jimbe? Come il tempo, anch'esse erano ignote. C'erano stati dei brevi momenti, pezzi di sè in cui era sveglia o almeno così le pareva, solo che questi erano così corti che nemmeno poteva dargli una forma. La sola certezza che la convinceva che questi fossero esistiti gliela forniva il proprio corpo, che ora le sembrava di non avere, tuttavia, il dolore su di esso era abbastanza vivo da farle tenere bene a mente di averlo.

Rimembrò voci astratte e sbrigative, il freddo che la pelle del suo viso aveva provato nel venire premuto a terra forzatamente, il sapore metallico del sangue che ancora le impregnava la bocca e perfino la fetida umidità che le si era attaccata addosso senza chiedere il permesso. Con ogni probabilità tutte quelle sensazioni si ricollegavano a uno o più interrogatori impostile per spingerla a confessare il piano d'attacco di Barbabianca o più semplicemente, un qualche straccio di informazione che poteva giocare a vantaggio dei militari. Forse era andata realmente così ma rimaneva comunque difficile poterlo dire perché lì, in quella dimensione silenziosa e incredibilmente estesa, lei continuava a fluttuare come un palloncino in alto nel cielo, cullato da correnti a volte dolci e a volte burrascose: qualunque fosse la sua meta aveva poca importanza dato che la sua stessa curiosità per ciò era spessa quanto un filo d'erba.

Ma improvvisamente, qualcosa cambiò: le parve di galleggiare ancora ma verso il basso stavolta. Man mano che scendeva, riacquistava la sensibilità persa, tornando a vivere e a far uso dei cinque sensi. Quando poi finalmente riuscì a dischiudere le palpebre, capì di essere ancora viva.

Si trovava in una stanza, tenuta in penombra dalle persiane tirate che lasciavano filtrare solo fini raggi solari arancioni piuttosto deboli ma sufficienti a mostrare il resto dell'ambiente ordinato. Con lo sguardo rivolto verso il basso, la ragazza notò il tatami color prato tappezzare tutto il pavimento, dando così all'abitacolo un tipico tocco orientale. Con un piccolo sforzo, spostò la testa e subito le saltarono all'occhio una grande libreria e un armadio di pregevole fattura posti alla parete che le stava di fronte. La scrivania che distava a malapena un metro da lei era grande e spaziosa; su di essa spiccava una lampada ad olio spenta, affiancata da un pila ordinata di fogli e un insolito copricapo a forma di testa di cane, almeno così le sembrava dalla forma. Doveva ancora abituarsi alla semioscurità del posto. Nell'osservare con occhi ancora assonnati quel luogo dalle dimensioni modeste, la mente di Bianco Giglio, ora un po' più sveglia, giunse alla sola e possibile conclusione esistente: si trovava nell'ufficio personale di un'ufficiale della Marina, probabilmente con un grado piuttosto elevato.

Non devo perdere la calma. Si disse.

Espirò profondamente e celò sotto le palpebre le iridi color cioccolato. Nel schiuderle, notò un dettaglio della scrivania che prima le era sfuggito: vicino alla pila di fogli, proprio al bordo del mobilio, vi erano i suoi sai e ai suoi piedi, il resto della sua roba. Non seppe dire se fosse una fortuna o una stranezza che le sue armi si trovassero a così breve distanza da lei ma di certo non volle sprecare l'occasione capitatale: tentò di muovere sia le braccia che le gambe ancora intorpidite ma a malapena riuscì a svegliare i suoi muscoli. Qualcosa la bloccava e non era solamente la stanchezza; fu nel concentrare la sua attenzione su i suoi arti che vide i propri polsi imprigionati da un paio di manette e nell' avvertire il freddo avvolgerle anche le caviglie, non le occorse molto per comprendere che anche lì era stata legata.

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