Open your eyes

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Quando il tramonto calava su Rock spire, la roccia bagnata dei grandi spuntoni che emergeva dalle profondità marine si ricopriva di pagliuzze dorate, risplendendo a contatto con la luce soffusa del sole rosso.
Lo specchio dorato che ballava sulla superficie dell'acqua emetteva bagliori delicati, emananti un'atmosfera diversa da quella tempestosa del mezzogiorno. Indubbiamente, il tramonto era l'istante del giorno dove il calore si acquietava, andando a sfocarsi appositamente per infilarsi sotto le coperte notturne. Per quell'unica ora al giorno, i fasci che dipartivano dall'orizzonte mutavano dall'oro al rubino, variando, di tanto in tanto, con sfumature rosee e grigie, nel caso alcune nuvolette col latte stessero passeggiando pigramente nel cielo. In sostanza, uno spettacolo di luci calde da assaporare in tutto il suo splendore.

Perfino il sorriso smagliante della polena della Moby Dick era uno scintillio continuo. Era come se finalmente la grande balena fosse tornata a sorridere, così tanto da piangere per la gioia. Debolmente, i raggi solari filtravano da ogni finestra e oblò lasciato aperto, arrivando anche in quei corridoi che solitamente necessitavano di un lumino ancor prima delle luci serali. Il giallo opaco si rifletteva sul pavimento legnoso, che scricchiolava ritmicamente sotto i passi di Ace, privi di fretta, rivolti ad una meta precisa e senza che eventuali rompiscatole gli puntassero un forcone contro, per la troppa calma con cui si stava muovendo. Non c'era nessuno a bordo della Moby Dick, tutti quanti si erano sistemati negli alloggi di Rock Spire, svuotando le stive e portandosi dietro pochi effetti personali. Alle riparazioni ci si avrebbe pensato più in là, quelle potevano aspettare, ma Ace non sarebbe stato capace di attendere un solo secondo di più: il suo fisico pretendeva ancora parecchio riposo, ma lui non lo stava a sentire, poiché di dolore fisico non ve ne era traccia. Proseguiva imperterrito, senza modificare la propria andatura, con la chiave lasciatagli da Don nel fondo della tasca dei pantaloni. Al moro non premeva sapere il perché di quel gesto da parte del medico-cecchino, ne di qualunque altra azione a suo favore: in quel frangente, ogni cosa era stata volutamente posta in secondo piano, al giorno dopo, se proprio doveva fissare una data, ma, nonostante le ore a sua disposizione fossero meno di ventiquattro, a lui erano comunque sufficienti. Non gli occorreva correre o cercare nei angoli più disparati di quell'ammasso di scogli per orientarsi: lui già sapeva, ne era sicuro, che lei fosse là, esattamente dove aveva pensato sin dall'inizio.

Le ombre semi oscure e il pallore dei fasci solari si diluivano a vicenda, non appena lui tagliava il tutto col suo passaggio. Di tutte le parti del suo corpo, il viso era sempre stato quello che non veniva mai illuminato, seppur al momento non portasse il suo cappello preferito. Scivolò lungo i corridoi della sua casa galleggiante con la stessa silenziosità di un fantasma e quando fu davanti alla porta che fungeva da ultima barriera al raggiungimento della sua destinazione, si concesse solo pochi secondi per mordersi il labbro inferiore, prima di girare il pomello e liberare i polmoni con un lungo sospiro.
La camera era di modeste dimensioni, un locale comune, ordinato, pulito, e con un piccolo bagno sulla parete di fronte, poco lontano dalla porta appena aperta.
Guardò a destra e a sinistra con noncuranza, ma rimanendo sul ciglio d'essa, per verificare che fosse tutto a posto; dalla finestra aperta il tramonto stava completando il suo quotidiano spettacolo, con appena un cenno di vento solleticante le spesse tende di cotone tirate ai lati. Arieggiata e immersa in una soffusa luce dorata dalle sfumature arancioni, la camera era addormentata in un silenzio maestoso, come se le fosse stato fatto un incantesimo apposito per indurre le persone a pensare che dovevano trovarsi da tutt'altra parte. Se Ace non fosse stato cosciente di quanto successo, la sua mente lo avrebbe indotto ad auto-convincersi che quella era stata semplicemente una giornata come tante altre, passata a servire Barbabianca, a navigare in lungo e in largo coi gabbiani che si divertivano a fare le giravolte in mezzo alle vele della nave, a camminare su terre mai visitare e ad andare avanti con le proprie scelte strette in petto.
Il sol pensiero gli fece sorridere il cuore: ne sarebbe stato maledettamente felice, se soltanto quanto capitatogli davanti agli occhi non lo avesse tenuto ben ancorato a dove doveva stare. Guardò quell'oggetto colorato di sua proprietà come fosse un cimelio creduto perso o buttato via perché orribilmente brutto, ma che puntualmente tornava apposta per suscitare il tormento, esattamente come ora stava facendo il suo zaino con dipinto sopra un motivo ad anguria, posto ai piedi del letto. Il vederlo lo stupì, e finì per alzare di poco le sopraciglia, nel mentre quel pizzico di stupore l'aiutava a realizzare che non uno, ma due dei suoi accessori preferiti fossero lì e non in chissà quale discarica, insieme alle macerie dell'isola di Banaro: appoggiato sopra lo zaino, c'era il suo cappello arancione, con tutti i decori da lui aggiunti in quegli anni, pulito e senza neppure una scucitura. Vederlo lì, l'aiutò a capire che l'inganno da lui archittetato era stato scoperto prima della pubblicazione della sua condanna a morte, ma, d'altro canto, non doveva poi esserne tanto stupito: lei non sarebbe mai tornata alla Moby Dick, non dopo aver scoperto che lui le aveva scambiato il log pose, non con quel farabutto in giro....

Nemmeno lui lo avrebbe fatto. Figurarsi se tornava alla nave senza aver portato a termine la propria missione. Figurarsi...se lasciava che la sua Sayuri finisse fra le sudice mani di quel schifoso bastardo. Senza neppure girarsi e con un debole giro di chiave, chiuse la porta, per poi avanzare di qualche passo fino a inginocchiarsi davanti ad essi. Osservò il suo zaino nel più assoluto dei silenzi, senza un pensiero o una parola, come se fosse la prima volta che lo vedeva. Lo fissò con le iridi ridotte a due semplici cerchi neri, privi di sfumature luminose: lo osservò con fare ipnotizzato, perdendosi fra le strisce scure e il verde base della stoffa, ignorando la consapevolezza di dover guardare più in alto. Perdersi in piccolezze materiali era un metodo inutile per rimandare il momento decisivo, che si trattasse di semplici bagagli oppure di tonnellate d'oro massiccio. Ace, a quel punto, avrebbe potuto trovarsi fra le mani anche il tanto famigerato One Piece, ma non lo avrebbe degnato della giusta attenzione, non con la mente inchiodata su un pensiero fisso, la cui priorità aveva un peso non poco consistente per la sua coscienza. Tardare per paura, poi, non era nel suo stile, non era affatto il tipo che aspettava o mostrava esitazione, non Ace Pugno di Fuoco, il formidabile comandante della seconda flotta di Barbabianca: il prolungare l'attesa non faceva che a inspessire un'agonia che, probabilmente, se affrontata subito, poteva durare massimo dieci secondi, ma quando Ace raccolse finalmente il coraggio per muovere la testa, realizzò che a lui dieci secondi non sarebbero stati sufficienti. Alzò il capo scompigliato e corvino un po' più in alto, fino a guardare il letto e, nel raddrizzarsi, gli parve che il pavimento sotto ai suoi piedi fosse misteriosamente svanito.

Non cadde a terra, rimase dritto e fermo, anche se i polmoni gli si accartocciarono come se un'immane pressione li avesse appena compressi. Nel venire lì si era preparato o almeno aveva cercato di figurarsi quel momento al meglio delle sue possibilità. Don non gli aveva dato certo la chiave solo per liberarsi dalle manette e farsi una doccia: lo conosceva come se fossero nati insieme, ogni sua espressione, per il medico-cecchino, equivaleva a uno stato emotivo particolare. Se fosse stato lì, probabilmente avrebbe riconosciuto anche a occhi chiusi la devastazione dipintasi sul viso del moro, il dolore, la sofferenza non rivolta a sé stesso, e ne avrebbe percepito l'intensità a tal punto che sarebbe arrivato a pensare che simili nomi non fossero sufficienti per descrivere lo stato di Ace. E intanto, lui si arrampicava sugli specchi, cercava di non crollare, seppur le impalcature del suo carattere stessero già crollando come tanti castelli di sabbia. Il non sbattere le palpebre lo portò a provare un forte pizzicore alle pupille, che si accentuò non appena emise un nuvoletta invisibile e accaldata di ossigeno trattenuto per troppo a lungo.

Era lì.
Sayuri era davanti ai suoi occhi, esattamente nel medesimo stato in cui Don l'aveva descritta.

Il letto era ad una piazza e mezza, con morbide coperte azzurre che arrivavano appena al di sotto della vita del seno della ragazza. Giaceva mezza seduta con le braccia piegate ai lati e i polsi imprigionati da stretti legacci per tenerla ferma. Le mani, appena dischiuse, erano perfettamente immobili, molli e senza vita. I lunghi capelli castani si disperdevano sul cuscino con morbidezza, espandendo un dolce profumo alla vaniglia percepibile soltanto da molto vicino. Ogni tanto il vento li smuoveva come minuscole onde, giocando a schiarirli oppure illuminando i fini lineamenti dei viso di lei, profondamente addormentata come il resto del corpo, in attesa di chissà quale segnale...

Si diceva che niente al mondo fosse più angoscioso e freddo dei abissi marini; erano i cimiteri di molte navi, rifugi per creature che alla luce del sole non sapevano come vivere. C'era una credenza, una specie di favola che i pescatori si divertivano a raccontare ai bambini, ma Ace non la ricordava molto bene: parlava di strani esseri dalle fattezze simili a piccoli stelle, che inducevano gli audaci a scendere ancor più in basso di quanto il loro fisico permettesse. Se Sayuri fosse stata una di quei strani esseri o se anche solo la sua anima fosse stata imprigionata laggiù, il moro avrebbe tentato fino alla fine dei suoi giorni pur di riprendersela, ma visto e considerato che lui, contro l'acqua, non poteva vincere, si sarebbe semplicemente lasciato andare giù, cosicchè lei non fosse costretta a patire la solitudine per l'eternità. Ma il punto era che Sayuri non si trovava in fondo al mare o ai confini del mondo: era davanti a lui, imprigionata in uno stato catatonico e dunque più lontana di quanto fosse stato lui.
L'impotenza fece inginocchiare Ace come se metà delle sue gambe fossero state tranciate di netto. Quella stanza, per quanto fosse accogliente, non aveva nulla di diverso dal patibolo a cui era stato destinato; l'impotenza che stava provando era la stessa. Lì, dove le sue mani e tutto ciò che gli apparteneva, salvo forse la disperazione, non potevano risollevarlo.

"Brutta stupida..." mormorò lui, nel serrare le sue mani attorno ai lembi di coperta sporgenti "Guarda come ti sei andata a conciare..."

Aveva scorto solo minuscoli frammenti di quel quadro che poi era la ragazza e solo quelli erano già stati sufficienti a fargli chinare la testa con una facilità tale da risultare incredula. Pugno di Fuoco era famoso per essere estremamente orgoglioso e poteva ben fare concorrenza con il capitano Barbabianca: neppure da morti avrebbero accennato ad abbassare il capo, sarebbero stati capaci di morire in piedi, in tutta la loro fierezza. Ma in certe battaglie, dove il potere Foco Foco non aveva voce in capitolo, così come la forza fisica, la velocità e tutto il resto, contava soltanto l'animo e i puri sentimenti, elementi che stavano piegando Ace senza alcuno sforzo. Tornò a guardarla, soffermandosi a lungo sulle lunghe ciglia scure di quell'unico occhio non coperto, osservando poi gli angoli della bocca rosea, appena dischiusa verso il basso, e tutti i delicati lineamenti che si incrociavano fra di loro per formare quel volto che veniva guardato con lo stesso incanto che si provava nel ritrovarsi davanti una creatura dal fascino inspiegabilmente irresistibile. Nel leggere singolarmente i dolci tratti facciali della ragazza, per poi unirli come un puzzle, Ace vi scorse la spossatezza e anche il dolore che pareva starle dando ancora fastidio. Le sopraciglia non erano rilassate com'era di consuetudine quando si dormiva: erano appena un po' piegate, gemelle in tutto e per tutto alle sottili linee delle palpebre, che lasciavano presagire la fatica del riposo. Il respiro ogni tanto si appesantiva, esattamente come quando si era vittime di un febbre altissima e indubbiamente, anche quella posizione a lungo andare scomoda, non le stava giovando ma, dietro a ciò, doveva esserci una ragione medica più che valida, che lui, per mancata conoscenza medicinale, non poteva immaginare su due piedi.
Attratto da quelle minuscole perline trasparenti che le scendevano lungo il viso, passando fra l'incavo dei occhi e poi sulle guance come fossero lacrime, Ace vide sulla fronte della giovane una morbida pezza d'acqua fresca. La bacinella con cui più volte quel piccolo asciugamano era stato bagnato stava sulla cassapanca affiancante il letto, sopra cui c'era anche un'altra ciotola metallica, piena di bende sporche di sangue che il ragazzo non mancò di guardare con smorfia amara, insieme a un respiratore utilizzato di recente e al lumacofono menzionato dal medico-cecchino, da usare in caso d'emergenza.

In quel breve attimo di silenzio, rotto soltanto dal suo pesante espiro, buttò fuori parte della sua stupidità per l'arroganza impressa nelle ultime azioni compiute, prima che le conseguenze calassero su di lui senza lasciargli alcuna via di scampo. Certo che la mano non gli tremasse, afferrò i lembi delle lenzuola con le punte delle dita, scoprendo il restante gradualmente, lasciando che i raggi impolverati del tramonto accentuassero ancor di più la debole luminosità dei contorni fisici di lei, vestiti di bende spesse quanto il cotone. Nel loro essere candite, le fasciature rovinavano quel quadro tanto tenero quanto dolce, dando in bella mostra le ferite e tutto ciò che esse comportavano; seppur fossero celate con maestria medica, agli occhi di Pugno di Fuoco, erano più che visibili. Le sapeva profonde, gravi, rosse e angoscianti, su quel corpo ridotto alla più flebile delle fragilità; gli permettevano di immaginare cosa avesse patito per raggiungerlo, quanti ostacoli avesse dovuto affrontare tutta sola e quanti colpi aveva incassato senza emettere alcun gemito. Aveva anteposto la sua incolumità a qualsiasi altra cosa la riguardasse strettamente, ne era certo: inevitabilmente Sayuri, anche se lei stessa ne era consapevole, finiva col trascurarsi, tanto si faceva assalire dalla preoccupazione. Come l'orgoglio si accendeva in lui, ardendo e devastando più di un incendio, lei agiva mettendo da parte la sua vita, concentrandosi su chi o cosa necessitasse del suo aiuto, tendendo la mano senza esitazione; ora che non vi era più una ragione o un qualcosa per cui valesse la pena consumarsi fino a diventare cenere, tutto si era spento, ingrigito, perdendo così vigore e valore. L'orgoglio del fuoco era vivo, ma piatto, debole e opaco, completamente diverso da prima che le catene riuscissero a intrappolarlo.

Ferito per la sconfitta.
Amareggiato per la vergogna.
Sofferente per chi aveva rischiato la vita per lui.

"Maledizione, maledizione..!" imprecò disperatamente, mettendosi le mani nei capelli "Maledizione!"

Se non poneva rimedio a quella situazione alla svelta sarebbe impazzito, ma nessuno dei poteri in suo possesso, poteva destare la sua ragazza e questo gli stava facendo letteralmente perdere la testa. Non sapeva cosa pensare e quando stette per cedere, fece la sola cosa che il suo istinto gli dettò e che Don gli aveva concesso di fare: allungò le mani sul materasso e iniziò a sciogliere i legacci che tenevano fermi i polsi di lei, stendendoli con molta cautela. Era sul punto di toglierle anche la rigida imbragatura di cuoio che le bloccava la vita, ma preferì fermasi lì, poiché non era saggio liberarla totalmente nel pieno della cura; dovette fermarsi alle cordicelle, che ripose sulla cassapanca sempre facendo attenzione ai suoi movimenti. Dio solo sapeva quante ne avrebbe sentite su da Maya quando lo avrebbe scoperto, ma, francamente, non gliene importava un fico secco delle sue prediche o di quanto avesse sbagliato a saltare giù dal letto, ignorando le sue condizioni. Avrebbe dovuto capire il suo stato emotivo e probabilmente se fosse stata lì non gli avrebbe negato un piccolo cenno di ragione, ma in quel preciso istante, la sola cosa che premeva a Portuguese D.Ace era che la mano che tanto stringeva, sui cui poi fece appoggiare la propria fronte, per coprire gli occhi brucianti per le lacrime, si muovesse, che desse un minuscolo ma visibile cenno di vita.

"Accidenti a te, Sayuri. Ma che diavolo ti è saltato in testa?" mormorò rottamente e con rancore visibilmente rivolto a sé stesso "Affrontarlo da sola.."

Cosa le era venuto in mente? Combattere contro quel lurido bastardo da sola....
Non c'era mai stata l'ombra di una possibile vittoria per lei. Lui aveva perfino evocato il Dai Enkai Entei pur di schiacciarlo a terra, ma aveva finito per essere inglobato in quella sfera oscura e tartassato dalla pressione fino allo sfinimento. Ricordarlo non gli fece bene all'orgoglio, ma l'aver pensato di essere più forte di Sayuri, di certo, non gli aveva e non gli faceva tutt'ora guadagnare punti: forse in fatto di forza fisica la superava, ma quanto a doti riflessive, quali la pazienza, lei era cento passi più avanti rispetto lui.
Voleva prenderla in braccio, toccarla, ma la paura di romperla, fermava ogni sua intenzione nascente, bloccandolo al semplice contatto fra mani. Sayuri era così fragile in quel momento, indifesa....amorevolmente assopita e tenera quanto un pulcino raggomitolato nel suo nido, ma con sempre la graziosità e l'incanto di un cigno in procinto di spiccare il volo.
Se soltanto non ci fossero state quelle maledette bende........

Ogni volta che guardava ne scopriva altre, non finivano mai; era quasi convinto che si mostrassero a gradi puramente per rendere la sua visita ancora più straziante e disgraziatamente ci stavano riuscendo piuttosto bene. Alzando di poco la visuale, le osservò facendo scorrere con molta attenzione le sue pupille su tutto il corpo di lei. Le fasciature partivano dalla punta dei piedi e proseguivano lungo le ginocchia; la gamba sinistra era scoperta dal quel punto in poi, mentre la destra proseguiva su per i pantaloncini viola scuro, intrecciandosi con le fasciature che le stringevano l'addome nascosto dalla maglietta senza maniche col fondo a sbuffo. Il braccio sinistro, mano esclusa, era il solo arto totalmente privo d'esse, ma la stessa cosa non si poteva dire per il secondo, curato fino a sfiorare la spalla appena scoperta. La sola medicazione che non fosse unita alle altre era quella della testa, dove Ace non potè non alzare il proprio di capo, soffermandocisi con occhi ancor più liquidi: le bende le fasciavano tutto il collo e appena un po' più sotto ad esso, incrociandosi sotto il mento e congiungendosi dietro la base della nuca. Nel suo scrutare scrupolosamente, il moro non mancò di notare il grande cerotto latteo su cui aveva già posto l'occhio in precedenza; questo copriva parzialmente la parte destra del viso della giovane, lasciando libera una minuscola parte della guancia, che lui sfiorò con l'indice, senza il timore che lei si dissolvesse come polvere al vento.
Mosse il dito avanti e indietro più di una volta, con la guancia premuta sull'avambraccio, ma poi scelse di toccare con leggerezza il collo col proprio palmo della mano. Nel suo piccolo, voleva sperare che quel gesto le desse un pò di sollievo, in qualunque dimensione lei si trovasse. Lasciare che si immergesse in un illusione dove la brutalità emersa nell'ultimo periodo non esistesse, era un desiderio che, per quanto Ace desiderò realizzare, non poteva avverarsi. Altrettanto forte era il voler non farsi vedere da nessuno ridotto a quel modo: in fondo, era un uomo, un pirata, e per nulla al mondo avrebbe fatto la figura del moccioso che si lasciava prendere dal panico per delle banalità.

Ma chi prendo in giro....Sospirò mentalmente, tornando a far combaciare la fronte con il dorso della mano della castana.

Se davvero era un uomo come aveva appena affermato, perché diavolo gli veniva da piangere? Era fin troppo cosciente che cosa fosse quel bruciore arrivato a fargli strizzare le palpebre, tanto da inumidirgli le ciglia, e sapeva altrettanto bene che il minuscolo calore liquido che stava per colare giù, lungo le sue guance, sarebbe stato un semplice, ma pur sempre evidente pianto.

"Sono un'idiota. Un grande idiota" affermò con la mano di lei sempre avvolta nella sua "Quello che dovrebbe essere semplice da capire, io lo trovo assurdo e finisco per rendere la cosa più complicata di quanto sia realmente. Forse è perché a parte me, te e papà, nessuno sa che io sono il figlio del Re dei Pirati.."

Se ci fosse stato qualcun altro al posto suo, la Marina non lo avrebbe trattato con tanti riguardi. Senz'ombra di dubbio, se a essere catturato fosse stato Marco o Jozu, per esempio, un tipo come Sengoku il Misericordioso avrebbe organizzato qualcosa per cui la sua grande abilità di stratega venisse nuovamente riconosciuta, ma sicuramente nulla di così sfarzoso; non che loro non fossero pirati degni di nota, ma si sa, di figli del Re dei Pirati ce n'era uno solo e quello era lui. A lui era stato destinato il patibolo reale di Marineford, l'intera presenza del corpo militare coi suoi più alti esponenti e gli occhi di ogni singolo essere vivente che avrebbe ricordato quella guerra come uno scontro epico contro il più anziano dei quattro imperatori. Non centrava quasi niente il fatto che fosse un potente e pericoloso pirata, non centravano nulla le gesta compiute nel corso della sua carriera. Loro sapevano – Il Misericordioso e quel vecchio pazzo del nonno – chi lui fosse realmente e l'essere stato servito su un piatto d'argento, non li aveva lasciati indifferenti.

"Tu lo sapevi, non da sempre, ma lo sapevi e mi hai sempre considerato un persona estranea a quello che il mio sangue dice" riprese deglutendo amaramente "Ammetto che la cosa al momento mi ha lasciato spiazzato. Anche quando l'ho confessato a papà non sapevo come prendere le sue risate"

Il ricordo di quelle risate lo fece sorridere nostalgicamente. Aveva scelto spontaneamente di rivelare la sua reale identità al capitano e quello aveva preso la sua confessione come fosse una bazzecola di peso irrilevante. Lui, che era stato il più grande rivale del suo padre biologico, ci aveva riso sopra e lo aveva fatto perché proprio non gliene importava una mazza e ad Ace erano occorsi diversi secondi prima di rendersi conto della sua reazione. Non ci aveva creduto che Barbabianca potesse prendere la questione con così tanta leggerezza, ma la verità era che lui considerava i legami di sangue con un metro diverso dal suo, per questo non si era fatto tanti problemi a dirgli come la pensava al riguardo. In quel momento, il peso del passato che grava nei angoli remoti di lui si era alleggerito, non scomparso, ma diventato meno spigoloso e fastidioso, abbastanza da venir coperto con quella sua nuova parte di vita. Aveva provato sollievo, felicità, dandosi dello scemo per quanto fosse stato ridicolo. Barbabianca aveva posto sulle sue origini il suo simbolo, accettandolo come tutti gli altri suoi figli ed Ace aveva messo a disposizione del Bianco la sua lealtà, la sua forza, portando il cognome della madre come per rafforzare il suo distacco dal vero padre. A lui andava bene, la sua vita non doveva essere per forza ricollegata a quella dell'ex Re dei Pirati, per questo si era lasciato alle spalle ciò che più lo infastidiva per prendere posto nella ciurma del Re dei mari come comandante della sua seconda flotta.

Non gliene importava niente fintanto che cuore e mente li rivolgeva all'incoronazione di Barbabianca, non gliene importava niente fintanto che stava su quella nave, non gliene importava niente fintanto che combatteva le battaglie con tutti i suoi fratelli, non gliene importava niente fintanto che poteva ridere e festeggiare con quella che era stata la terza benedizione della sua vita. La prima era indubbiamente sua madre, la seconda, Rufy: entrambi gli avevano fornito una ragione in più per stare al mondo, una ragione più che valida da rendere sopportabili le dicerie della gente, a volte troppo gonfiate dalla loro stessa ignoranza.

Ad Ace non importava....ma agli occhi di Sayuri, niente di quanto diceva o pensava poteva essere l'effettivo riflesso della verità: quella notte l'aveva raccolta prima che precipitasse troppo a fondo nel suo stesso dolore e nel mentre gli confessava tutto, una morsa indefinibile gli aveva attanagliato lo stomaco: lei non centrava nulla con la pirateria, ci era stata gettata ancor prima che nascesse e, esattamente come una barchetta in mezzo ad un oceano nebbioso, aveva tirato avanti per paura di affondare e non risalire più. A Ace non importava, se l'era ripetuto sempre....ma gli importava l'opinione che Sayuri aveva su di lui, le sue impressioni e non c'era paura più grande dell'essere allontanato proprio dalla ragazza. Una semplice confessione o, nel suo caso, un scoperta casuale poteva mutare addirittura un intero rapporto d'amicizia e trasformarlo in qualcosa per cui poi si avrebbe provato rimpianto per tutta la vita: c'era questa possibilità, c'era sempre stata, perennemente accompagnata da un forte timore incastrato in gola. In fondo, quando si era il figlio di un demonio - così la gente amava definirlo - non ci poteva che aspettare questo e peggio, e Ace lo aveva imparato bene: quando si è il soggetto di tali calugne o di qualcosa strettamente collegabile ad esso, ricordare le smorfie di disgusto, le voci arrabbiate e tutta una serie di comportamenti che emergevano quando si parlava di Gol D.Roger, era facile quanto imparare a parlare. Lo aiutava a intercettare il colpo, a prepararsi a incassarlo adeguatamente senza che gli facesse male più del dovuto. Diceva che non gli importava...ma invece aveva passato molti anni a cercare di prevedere le fitte al cuore che il nome del Re dei Pirati scatenavano in lui.

"Essere il figlio del Re dei Pirati non è sufficiente a renderti diverso ai miei occhi e mai lo sarà"

Strabuzzò gli occhi nel sentire quelle parole già ascoltate in passato, con l'uguale dolcezza di allora risvegliarsi e salire fino a raggiungergli la mente.

"Io mi sono innamorata di Portoguese D.Ace, non di Gol D.Roger. Mi sono innamorata del capitano dei pirati di picche, del secondo comandante della flotta di Barbabianca, non del figlio del Re dei Pirati. Non mi risulta che esista un Gol D.Ace, senza contare che un simile cognome non è molto bello da sentire. Non mi importa sapere quali reati abbia commesso questo Re dei Pirati perché io conosco te, non lui. A te ho giurato fedeltà, non a lui. Amo te e te solo seguirò fino alla morte, e poi....le lentiggini ti donano molto più dei baffi"

C'era una ragione più che valida se quella notte era stata diversa dalle altre. In effetti, c'era sempre stato qualcosa per cui valesse la pena non soffermarsi sul passato, solo che Ace aveva la tendenza a dimenticarsene e il percepire la castana vicina a lui nello spirito, fece stringere le sue dita ancor più delicatamente quelle di lei, sorridendo e mordendosi il labbro inferiore senza mai alzare la testa.

"E' strano, non so perché.." disse con le spalle singhiozzanti e la voce rotta "Ma mi viene da piangere se penso a quello che avete fatto e non..." dovette tirare su col naso "E non riesco a smettere per la felicità!" esclamò di colpo mentre quelle stesse lacrime di cui da bambino si vergognava tanto straripavano dai suoi occhi "Non pensavo...che sarei stato tanto grato di questa vita e vorrei che tu potessi ascoltarmi, vorrei che tu fossi sveglia anche solo per rimproverarmi!" singhiozzò serrando la mascella "Spiegami come cavolo faccio a chiederti scusa se tu non ti svegli!!" urlò.

Poteva essere il famoso Pugno di Fuoco, capace di distruggere intere flotte con una sola vampata rovente.
Poteva essere il comandante della seconda flotta di Barbabianca.
Poteva essere uno dei pirati più forti e temuti che si fossero mai visti dall'inizio dell'era della pirateria.
Poteva essere tutto questo, ma di certo, Ace non poteva non essere umano e come tale, reprimere i propri sentimenti. Nessuno metteva in discussione la sua forza, ma, in fondo, egli rimaneva pur sempre un ragazzo, un moccioso in confronto a certi veterani. E, a dispetto dell'apparenza, era abbastanza fragile da versare lacrime per chi amava. Sfogati pure se ti va, gli avrebbero detto i suoi compagni, ne hai tutto il diritto.

Svegliati. Chiese con più enfasi Dannazione, svegliati, Sayuri.

Era sul punto di impazzire tanto si sentiva inerme. Non poteva più sopportare di vederla addormentata, senza che lei gli sorridesse. Era come se quanto realizzato fino a quel momento fosse inutile: la sua felicità non la poteva risvegliare, il suo rinnovato attaccamento alla vita e a quanto essa conteneva non era sufficiente perché il sonno di lei si interrompesse. Sbatterci contro le poche briciole di orgoglio era utile quanto lanciare dei sassolini contro le alte mura di Marineford e cercare di abbatterle col fuoco era ancora più vano. A malapena riusciva a creare una fiammella sulla punta dell'indice; affondare le unghie nei palmi cercando di far salire la temperatura del proprio corpo fu solo uno spreco di tempo, ma l'unica maniera consentitagli per scaricare la frustrazione senza distruggere l'abitacolo. Non c'erano catene a imbrigliargli i polsi e a schiacciarlo contro una fredda e umida cella di prigione, solo tanta impotenza emotiva nel vedere la persona tanto amata in quello stato di sonno perenne. Il padrone delle fiamme era a terra, sconfitto, con le mani rosse e le fiamme ridotte ad un labile ricordo dai colori sfocati.

"U....Uh...gh..."

Improvvisamente, il silenzio disturbato solo dai suoi continui pensieri fu interrotto da qualcosa che spezzò addirittura lo frusciare del vento fra le tende. Ace alzò la testa di scatto, puntando il viso su quello della castana, visibilmente cambiato.

"Sayuri...?"

Anche se impercettibilmente, le sopraciglia si erano aggrottate ancora di più, insieme ad alcuni dei lineamenti facciali. Il moro lo avrebbe preso per uno sbaglio se soltanto non avesse scorto per una seconda volta dei tremiti involontari. Tra quei piccolissimi movimenti, sentì il suo respiro farsi più pesante, quasi rocco, per poi tramutarsi in un leggero tossicchio.
Ace alzò il busto per osservarla da più vicino, percependo la mano che ancora stringeva, accentuare la presa. Che si stesse svegliando?

"Sayuri? Sayuri, sei...?"
"COUGHT!"

Stava per sperare che lei aprisse gli occhi, ma quel violentissimo colpo di tosse ruppe l'illusione allarmandolo. La ragazza tossì ancora, con brutalità, arrivando a sputare sangue.

"No! Sayuri, no! Calma, va tutto bene!"

La castana prese ad agitarsi immediatamente, un po' per il dolore riemerso e per quanto stava patendo. La pezza d'acqua fresca scivolò giù dalla sua fronte e le macchioline scarlatte colarono dalle sue labbra per calcare le linee del viso, scendendo così lungo il collo. Con ottimi riflessi, Ace riuscì ad afferrarle i polsi prima che questi sgusciassero via, portandoli sopra la testa di lei e tenendoli con una mano sola.
La cinta di cuoio stretta in vita la bloccava, impedendo che anche le gambe si divincolassero con troppo slancio, ma rimaneva comunque il fatto che non riusciva a respirare adeguatamente.

Dannazione!

Con le vene di lei che pulsavano da sotto la carne e rimbalzavano contro le sue dita, Ace decise ancora una volta di lasciarsi guidare dall'istinto, che lo condusse ad alzare con la mano libera il mento di lei, per poi far combaciare le sue labbra con quelle della castana; sarebbe stato più saggio se l'avesse girata sul fianco per impedire al sangue di ostruire la gola, ma legata com'era, non c'era altra via che la respirazione artificiale, senza contare che poi, sciogliere l'imbrigliatura, avrebbe solo peggiorato le cose. Avvertì il sapore metallico del sangue scendergli giù per la trachea, ma non ci badò e continuò a mandarle tutto l'ossigeno di cui i suoi polmoni disponevano, interrompendo la respirazione artificiale solo per sputare fuori dalla bocca un po' del liquido scarlatto ingerito.

Era disgustoso, orribilmente caldo, ma continuò puramente per cancellare quel male sgorgato prepotentemente e a lungo andare, neppure si accorse di aver sciolto la presa suoi polsi di lei per portare la mano dietro la nuca castana e alzarla dal cuscino. Se in quel momento si fosse reso conto di quello che stava facendo, forse si sarebbe fermato, ma non appena aveva toccato le labbra di Sayuri, ci era voluto molto poco perché il cervello si staccasse dal resto del corpo; si lasciò inebriare da ogni sensazione smarrita, assaporando la dolcezza di quel bacio che pian piano stava risvegliando e ricongiungendo i frammenti del loro legame, rottisi per quella brutta litigata. Per quanto con il solo ricordo una persona o un sensazione potesse sopravvivere, niente poteva superare il contatto diretto ed Ace nel baciare la sua ragazza, si lasciò trascinare dall'ondata di pura calma che era solito provare quando lei gli faceva compagnia.
Realizzò che tutto questo gli era mancato terribilmente e nel approfondire quel contatto, insinuando le dita fra i suoi capelli, sperò di sentire la sua voce cristallina, limpida come la superficie dell'acqua, di percepire quei suoi tocchi tanto leggeri da risultare paragonabili a delicati petali di fiore. Voleva sentirla così vicina da sapere senz'ombra di dubbio che fosse sua e di nessun'altro, come il suo potere di portare gli incendi lungo il mare. Senza di lei le sue fiamme perdevano colore e intensità, perdevano vita e si sa, una fiamma senza vita, è destinata a spegnersi ancor prima di nascere. Non si rese conto che il metallico sapore del sangue era scomparso e che la sua respirazione bocca a bocca si era venuta a trasformare in un bacio vero e proprio: si lasciò trasportare ancor più lontano, permettendo alla spirale di ingrandirsi, ma a ridestarlo, ci pensò qualcosa per cui lui subito tornò in quella stanza dove il tramonto aveva consumato quasi del tutto il suo momento di gloria: in un punto non ben definito della sua testa, avvertì distintamente delle dita toccargli alcune ciocche corvine e accarezzarle come per verificare che fossero vere.
Percependo ciò, Ace aprì gli occhi, incrociando un soffuso spicchio color cioccolato dalle sfumature disperse e confuse, che lo guardarono con fare indebolito.

"A....A-Ace.."




Un'altra sera era calata al rifugio roccioso; già prossima a diventare una notte a tutti gli effetti, il silenzio tombale che si respirava, lasciava presagire che quelle sarebbero state altre ore di pura tranquillità. Decisamente una buona notizia per gli uomini della ciurma.

La stanza dove Barbabianca riposava era identica a quella presente sulla Moby Dick, appena un po' più grande e con più macchinari attorno al letto, dove il Re dei Mari stava semiseduto con gli occhi rivolti alla grande finestra spalancata. Era inutile star lì a descrivere come stesse, poiché in egli non c'era novità che i suoi figli avessero già riscontrato: era stabile, sveglio, ma necessitava di riposo e il suo corpo, per questo, non poteva sottrarsi alle flebo e agli anestetici che la capo infermiera gli aveva rigorosamente prescritto. Le ferite erano state prontamente medicate, il sangue perso, restituito, niente era stato tralasciato o trascurato; era tornato come nuovo, sempre con la vecchiaia a pesargli sulle ossa, ma vivo, appena un po' più affannato del solito. La grande giacca ornata di decori rossi e dorati, con cucito dietro l'immancabile vessillo era perfettamente appoggiata alle sue spalle, incapace di staccarsi da esse o anche solo di allontanarsi. I morbidi cuscini ammucchiati all'estremità del letto gli permettevano di sedere comodamente senza che i suoi muscoli si sforzassero, con le coperte ripiegate sul fondo e le diverse flebo attaccate a specifiche parti del corpo.

Le mal sopportava da quando le sue cure ne avevano richiesto l'uso e se le sarebbe già strappate, se Maya non fosse stata tanto intransigente: quella donna aveva l'argento vivo al posto del sangue ed era uno dei validi motivi per cui era a capo dell'equipe infermieristico, aventi il compito di sostenere la sua salute. Il fatto poi che fosse tremendamente bella, come tutte le altre sue subordinate, era puramente casuale. L'essere tutto intubato non gli piaceva, mica era un vegetale o una cavia di laboratorio! Se ne sarebbe infischiato, ma poiché far arrabbiare una donna oberata di lavoro e visibilmente distrutta, era una mossa molto, ma MOLTO rischiosa, per quell'unica volta non aveva fatto storie, nemmeno quando lei gli aveva confiscato tutto il sakè.
Il leggero bip da parte delle macchine si alternava ritmicamente al suo respiro, rilassato e libero da ogni forma di ostruzione che poteva renderlo rauco o tossicchiante. La comodità del letto lasciava che ogni fatica o dolore svanisse, compreso il fastidio provocato dalle bende fascianti alcune parti del suo fisico e il paesaggio al di fuori della finestra ispirava una tranquillità così soprannaturale che, se non fosse stato per alcuni e leggerissimi sospiri ventosi, avrebbe distaccato chiunque dalla realtà. Seduto sul bracciolo della poltrona e la debole luce della stanza a illuminare il tutto, Marco leggeva con occhi semichiusi il giornale più recente arrivato a Rock Spire. In realtà era vecchio di due giorni, ma indubbiamente, anche se avesse avuto fra le mani quello nuovo, i contenuti non sarebbero stati tanto diversi visto che le notizie erano identiche a quelle dei giorni precedenti. Afferrando con la punta delle dita l'estremità della carta ruvida, stava sfogliando le pagine piene di articoli, farcite di immagini, interviste e scoop che i giornalisti erano riusciti a strappare alle autorità, spostando le pupille cerulee sui punti che più gli interessavano e accavallando di tanto in tanto le gambe.

"Allora, Marco, cosa ne pensi?" gli domandò il padre.

La Fenice abbassò il giornale per concedersi un attimo di riflessione. C'erano molti argomenti che meritavano di essere discussi, ma erano così tanti che il solo trovare un buon punto di partenza era piuttosto arduo. Dall'alto della sua posizione di comandante della prima flotta, Marco si ritrovò incerto sulla sua risposta, perché non poteva negare a sé stesso di essere sorpresa: tralasciando quanto sapevano al riguardo delle conseguenze delle guerra, i suoi occhi erano ricaduti su un particolare che riguardava strettamente un membro della sua famiglia, la cui esistenza ora non sarebbe più stata tanto trascurata dal Governo ed era proprio lì che il suo capitano aveva voluto che la sua attenzione ricadesse. L'essersi soffermato a lungo su quella pagina intera, indeciso se essere impressionato o perplesso, aveva fornito a Barbabianca una buona ragione per ghignare beffardamente.

"E' una bella sorpresa" rispose infine, piegando i fogli e riponendoli sul cuscino della poltrona.
"Guraguragura! Decisamente..." sogghignò il più anziano.
"Lo sapevi già, vero, papà?"

Il ridacchiare sotto i baffi dell'uomo, diede conferma al giovane uomo dalla curiosa capigliatura ad ananas la risposta alla sua domanda. Lo conosceva bene il suo capitano, come il palmo della propria mano e il vedere distintamente quell'espressione trionfante, ma priva di ogni traccia di stupore, aveva consentito alla Fenice di giungere alla lampante deduzione che lui fosse al corrente di tutto ciò ancora prima di loro e del Governo Mondiale stesso.

"Ce ne sono tante di armi a questo mondo, Marco, ma saprei riconoscere le lame che hanno avuto il coraggio di ferirmi anche a occhi chiusi" gli rivelò, per poi guardare un paio delle sue più grosse cicatrici che spiccavano sull'ampio torace in piena riabilitazione.

L'anzianità lo aveva privato di molte forze, ma non quelle itineranti alla memoria: certi avvenimenti non venivano gettati con tanta noncuranza nel dimenticatoio e Barbabianca non era certo un uomo che dimenticava su due piedi gli individui che avevano meritato il suo riconoscimento, i suoi pugni e anche la sua risata. Tutti i suoi figli potevano arrivare a comprendere che quando il loro capitano parlava con nostalgia, lo faceva nel massimo rispetto di quella persona, godendo di quei ricordi come fossero oro colato. Le cicatrici sul suo corpo, le lacerazioni biancastre e lisce che ogni tanto venivano nascoste dai cerotti, detenevano parti della vita del Re dei Mari che sarebbero svanite soltanto alla sua morte. E tra quelle parti, le più numerose e indelebili, si celava il volto di una persona scomparsa molti anni addietro e che ogni tanto diveniva oggetto dell'interesse dell'imperatore, che soleva riflettere sopra tali pensieri guardando il mare o il cielo, come in quel preciso istante. Benchè suo grande e ostico avversario, l'individuo la cui faccia ora ronzava in testa all'anziano pirata era accompagnata da tutta una serie di sensazioni che rendevano la sua immagine per nulla spigolosa, dura o aspra. Il venticello che si disperdeva nel cielo dalle striature bluastre, tendenti al nero, rafforzarono l'azione di Edward Newgate nell'ampliare quel ricordo a tutte le esperienze vissute, fino a riavercele nuovamente in mano, come scritte su carta. Era solo un immagine proiettata dalla sua mente, desiderata, ma, consapevole che non ci fosse nulla fra le sue mani, l'imperatore sospirò profondamente e con percettibile.

Restando a guardare il padre per qualche secondo, Marco riagguantò il giornale, spiegazzando le pagine velocemente, fino a ritrovare l'articolo letto solo qualche minuto addietro per poi ricominciare a leggerlo sin dall'inizio.

Continua l'assemblea generale indetta dai cinque astri della saggezza nella terra santa di Marijoa. A diverse settimane dall'incidente del ventisette settembre, la situazione è tutt'ora calda e instabile, con pochi sbocchi rispetto a quelli prefissati. Le autorità della Marina hanno convocato i diversi regnanti dei paesi che sottostanno al giuramento di fedeltà alla bandiera del Governo Mondiale per prendere bene in mano la situazione e da più di una settimana, sono impegnate con quest'ultimi e con gli anziani saggi, nella gestione di affari burocrati la cui progettazione e messa in atto non è ancora stata decisa. Nonostante l'impegno per il riassetto dell'asse politico-militare, la Marina si sta contemporaneamente occupando della ricostruzione di Impel Down, dando prova della sua incrollabile efficienza di cui è....

Il biondo interruppe la propria lettura per soffocare un risolino. Anche trovandosi nella disastro più totale, la Marina e il Governo Mondiale non perdevano l'occasione di mettere in evidenzia la loro magistrale prontezza nell'afferrare al volo la situazione. Farsi pubblicità era la sola scelta a loro disposizione per ridimensionare l'entità del danno, e il fatto che ai giornalisti fossero state concesse interviste con gli ambasciatori, era l'ulteriore prova che quelle piccolezze rientravano a far parte di una qualche pianificazione, avente il puro scopo di tenersi ben stretta la fiducia del popolo: era sufficiente dar loro ciò che volevano e la Marina l'aveva fatto...in parte.
I risvolti più cruenti e l'imbarazzo per essere stati così umiliati erano stati sigillati dentro le salde mura del Quartier Generale e non c'era bisogno di essere intelligenti per capire che esistevano fatti che le autorità preferivano tenere per loro, considerate utili nonostante la loro pericolosità. I pirati di Barbabianca avevano poche idee al riguardo, idee che al momento per ragioni più che plausibili avevano messo da parte per godersi il meritato riposo, ma era innegabile che quei fatti al momento occultati, si sarebbero presentati con non poca grazie in futuro. Anche la Marina aveva preferito schedare il tutto e tacere, trovando più saggio concentrare la propria attenzione sui responsabili della quasi totale distruzione della prigione più temibile al mondo: seppur il Re dei Mari e tutti i suoi figli avesse contribuito pesantemente all'opera, il merito di quel disastro era stato attribuito ad un discreto gruppo di individui la cui lista dei reati era tanto lunga da far accapponare la pelle.

Edward Newgate non aveva risparmiato le risate nel leggere i nomi e anche tutt'ora sotto i suoi prorompenti baffi bianchi, vi stava quel ghigno trionfante e carico di soddisfazione. In principio, il comandante della prima flotta non aveva capito cosa ci fosse di tanto interessante in quel giornale che già non conoscesse o avesse previsto, ma dopo averlo letto e focalizzato la parte che il padre voleva fargli notare, la lacuna in lui era scomparsa definitivamente.

Da un rapporto giuntoci per generosa concessione del maresciallo Ayatazu, oltre ai vari ricercati già resi noti, è stata riscontrata la presenza di Sayuri Bianco Giglio, della seconda flotta di Barbabianca. Rimane ancora un mistero come sia riuscita a fuggire dalla cella d'isolamento dentro cui era confinata, ma ciò che gli investigatori hanno scoperto, è la sua parentela con l'ex ammiraglio Aron, detto il Buono, accusato di alto tradimento per l'insubordinazione mostrata nei confronti degli ordini impartiti dai propri superiori e per la divulgazione di documenti raccontanti falsità.

L'articolo continuava su una panoramica tutt'altro che positiva di quell'uomo - il cui unico reato aveva oscurato totalmente gli atti eroici e generosi rivolti al popolo -, per poi passare direttamente sulla nipote, ovvero Sayuri.

La sconcertante scoperta di questo legame fra la ricercata e l'ex ammiraglio, ha portato le autorità a prendere con maggior considerazione la pirata sottostante gli ordini di Barbabianca, la cui testa ora vale ben duecentottanta milioni di berry. Fino a questo momento, la sua identità si era limitata alla più che sicura provenienza dal Mare Meridionale, ma, oltre a ciò, non si è mai avuto nulla al riguardo che potesse essere sufficiente per tracciare un profilo completo. Come a voler emulare le gesta del parente, la ragazza è colpevole di aver mancato di rispetto alle alte sfere, accusando sia loro che le autorità militari di incompetenza...

Marco stavolta non riuscì a trattenere una smorfia divertita. Sebbene avesse già letto quelle righe pochi secondi addietro, non potè non trovare divertente il fatto che la sorellina si fosse messa a rimproverare apertamente le persone più in vista e potenti del Governo come fossero dei lattanti. Decisamente un comportamento più che insolito conoscendo la sua indole tranquilla e pacifica..

Questa poi: la nostra principessina che alza la voce. Ci siamo persi proprio un gran bello spettacolo.

Vedere Sayuri arrabbiarsi era un'impresa reputata assolutamente inesistente. Lei e la rabbia non stavano sullo stesso piano visto l'alto grado di incompatibilità e a tutti loro ciò piaceva, perché la ragazza era relativamente serena, ma sempre pronta a dimostrare il suo valore quando la situazione lo richiedeva. Eppure era successo: anche Sayuri, la loro gentile sorellina, aveva perso la pazienza, arrivando ad alterarsi a tal punto da esprimere un quanto giusto disprezzo per quei uomini le cui ragioni miravano alla distruzione delle loro vite e ciò lasciava ampio spazio all'immaginazione perché quel particolare momento venisse ipotizzato in tutte le salse possibili.

"Da quel che c'è scritto qui, pare che questo tizio abbia creato non pochi grattacapi poco prima di dimettersi dalla carica di ammiraglio" affermò la Fenice riassumendo mentalmente quanto appena letto "Lo conoscevi bene, papà?" gli domandò poi abbassando il giornale.

Il capitano volse i suoi occhi verso il centro della stanza muovendo appena la testa, ma indugiò ancora un attimo prima di parlare. Aron, sebbene fosse stato un avversario, era rimasto nei suoi ricordi con un grande punto interrogativo sulla testa. Darsi tanta pensa per capire che cosa passasse nella testa di un marine era un'assurdità bella e buona ma Edward Newgate non faceva mai nulla senza una buona ragione e l'ex ammiraglio contro cui aveva combattuto così tante volte quante quelle di Garp contro Roger, era una motivazione più che sufficiente per impegnare la propria mente in supposizioni e ipotesi costruttive.

"Un uomo come quello.."cominciò guardando poi il biondo "Non sparisce nel nulla solo per evitare di essere catturato dalla Marina. Che lo diffamino pure se vogliono!" esclamò divertito "Gente come lui non si dimentica nemmeno da morti e di certo non saranno quattro sciocchezzuole diffuse malamente a fare di lui un fuorilegge, guraguraguragura!!!"

Avrebbe volentieri brindato con un bel boccale di sakè, ma essendo sotto medicinali e con una capo infermiera prossima all'esplosione neurologica, Barbabianca rinviò il tutto a una data che non implicasse rimproveri o robe del genere. La presenza del comandante della prima flotta nella sua stanza poi era stata appositamente calcolata perché gli ordini di Maya non venissero trasgrediti e, anche se non aveva mai temuto il giudizio dei altri, preferì rispettare gli ordini impartiti dalla donna.

Abbandonando il collo sui soffici cuscini, distese i tendini di quest'ultimi, afflosciando anche i propri ricordi di modo che scivolassero via, lenti come la marea. L'aveva sospettato fin dall'inizio: nel momento in cui aveva scorto quelle lame, era come stato colto da un flashback sfuggente come i fulmini a ciel sereno: come aveva affermato prima, era perfettamente in grado di riconoscere e distinguere le armi che erano state in grado di ferirlo in modo grave nel corso dei suoi lunghi anni di pirata e quei sai, erano responsabili di due delle sue cicatrici più grosse, ma d'altro canto, Aron non era mai stato quello che si poteva definire un novellino. Il tempo dove le loro ambizioni cozzavano l'una fra l'altra come fossero solide, scintillando e producendo colori invisibili, dove il mare si infuriava per come veniva scosso, era lontanissimo ormai, quasi irraggiungibile, ma Barbabianca ricordava così bene quei momenti, che preferì lasciarli immutati, deposti nella loro cornice: non appartenevano al presente e toccarli con mano pesante li avrebbe soltanto danneggiati, per non parlare poi della nostalgia che indubbiamente pian pianino si sarebbe fatta strada dentro il suo animo. Pareva strano, inverosimile soffermarsi così tanto su una persona che in passato aveva combattuto per sbatterti in galera, ma forse ciò era dovuto al fatto che l'avere la nipote di quest'ultimo sotto la propria ala, aveva permesso ai vecchi tempi di trascinarlo al largo e di lasciarcelo giusto quanto serviva perché ricordasse un altro po'.
Sayuri era diversa da Aron, benché ci fossero delle accomunanze caratteriali: era una ragazza molto buona, ingenua nella sua sincerità, il cui legame col vecchio marine era qualcosa di così indistruttibile che neppure le più schifose menzogne a suo carico avrebbero potuto intaccarlo. La loro storia rappresentava un tesoro preziosissimo per la ragazza e violarlo sarebbe equivalso a ferirla. Nessuno, neppure lui, che era il suo capitano, aveva diritto di chiedere qualcosa che avrebbe potuto riaprire solchi curati con tanta fatica.

Sono sicuro che ti stai facendo delle grasse risate, ovunque tu sia adesso.. Ghignò con sfrontatezza.

Se lo immaginava ridere fino all'infarto per come la nipote aveva mandato al diavolo le "Illustre alte sfere" del Governo Mondiale. Sotto sotto, anche lei era sconsiderata, seppur anteponesse la ragione all'istinto e questa prerogativa, poco ma sicuro, l'aveva ereditata dal nonno.

"Marco, dimmi, come sta Sayuri?" chiese poi.

Il biondo, rimasto in silenzio, scosse la testa debolmente, con un che di cupezza nell'espressione facciale.

"E' stabile, ma non si è ancora svegliata" gli rispose "Maya suppone che sia questione di giorni, giusto il tempo necessario che occorre al suo corpo di riprendere a funzionare correttamente, ma si tratta solo di ipotesi" spiegò mesto per poi aggiungere "Potrebbe volerci più del previsto: trattandosi di un coma, è difficile dirlo..."
"Capisco......" Barbabianca espirò profondamente, sciogliendo ancor di più i propri muscoli.

Un sottile velo scuro ottenebrò il volto del più anziano degli imperatori, velo che arrivò a toccarlo anche emotivamente.
Un uomo come lui, potente sotto tutti gli aspetti, stimato, rispettato, amato e odiato allo stesso tempo..Barbabianca era tutto questo è molto altro ma la gente conosceva soltanto la facciata esterna, la fama che si era creata, non certo la parte interna, molto più umana di quanto si pensasse. Chiamava e considerava figli tutti i componenti della sua ciurma, alleati compresi, per una ragione che, per quanto chiara, era ritenuta una sciocchezza, una strana usanza che il pirata aveva inventato per rafforzare il valore e l'unione della ciurma. Se solo quelle persone avessero avuto l'occasione di passare anche solo un'ora sul ponte della Moby Dick, ogni forma di scetticismo sarebbe evaporata istantaneamente, ma non si trattava di dover dar prova del reale e saldissimo legame affettivo che univa l'imperatore ai suoi uomini: lì si stava semplicemente parlando della sorte di una figlia che ancora non era stata dichiarata del tutto fuori pericolo e ciò bastava per rabbuiare un padre come lui, la cui famiglia non aveva prezzo.

"Glielo chiedo per favore, padre: mi affidi l'incarico di trovare Teach"

Non aveva potuto fermarla o impedirle di andare, anche se si era fermamente opposto alla sua decisione. La brutta sensazione che gli aveva puntellato il petto.... lei l'aveva percepita più viva e nitida, dandole maggior consapevolezza del proprio gesto. Chissà cosa aveva realmente visto...
Più volte se l'era domandato, ma dopo tanto pensare, era giunto alla conclusione che la figlia avesse compiuto solo un paio di passi in più rispetto a lui e che la promessa fatta al povero Satch, le avesse consentito di scorgere quel pericolo abbastanza da farle apprendere, che la faccenda andava trattata con la massima delicatezza. Ma tutto aveva preso una piega così storta e irreparabile che, anche se adesso era tutto finito, l'ombra dell'amarezza, le ceneri e i resti di quanto accaduto aleggiavano sopra di loro come una nuvola tossica e pareva essere proprio quella a tenere addormentata la figlia, la sola mancante all'appello.
Senza, Rock Spire, la Moby Dick, tutto l'ambiente che li proteggeva dall'occhio curioso del mondo, sarebbe rimasto impigliato nella grigia attesa per un tempo incalcolabile.

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