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CHANDLER

I miei mi vengono a trovare in occasione della prima partita ufficiale, è un venerdì e non ho nessuna voglia di vederli. È passato solo un mese da quando me ne sono andato da Atlanta, ma posso affermare di riuscire quasi a sentirmi una persona nuova. Quando mi stanno intorno, sono pieno di risentimento e rabbia e non faccio altro che provare disagio. 

È una sensazione che si è intensificata dopo la morte di Amy, come se il mio istinto mi sussurrasse che c'è qualcosa che non va in tutta questa storia e io non riesca a dargli davvero ascolto perché, quando ci provo loro, mi riportano dalla loro parte. Amy non avrebbe voluto vedermi così, ma non mi sto arrendendo a vivere senza le risposte di cui ho bisogno, voglio solo arrivarci con calma e sto cercando di capire come fare. 

C'è qualcosa che non torna nella sua morte, devo capire cosa sia. Ho lasciato Atlanta in fretta, mio padre era così furioso che credo abbia pensato sul serio di volermi disconoscere; quindi, mi fa strano sapere che dopo che mi hanno spedito a vivere da solo in un dormitorio in disuso a un'ora da casa mia, adesso vogliano vedermi. Quando c'era Amy ridevamo del fatto che non avessimo niente in comune con loro, oggi non riesco più a ridere di molte cose.

Passo tutta la settimana in tensione pensando al momento in cui mio padre dirà qualcosa per mettermi in imbarazzo, sono così intrattabile che discuto due volte con Mitch e Josh viene al dormitorio a fumare una sigaretta per parlarmi. Dico quello che posso dire e cioè che sono nervoso per la partita, non per i miei genitori. 

Mi limito a seguire le lezioni e sgattaiolare ad allenarmi, un giorno dopo l'altro. Venerdì giochiamo contro i Knights e vinciamo, inutile dire che il coach Leslie è particolarmente soddisfatto e i ragazzi sono su di giri. 

Kane ha fatto un'ottima partita e vengo ringraziato per questo, per avergli permesso di emergere e dimostrare cosa sa fare. Mi fermo a parlare con i ragazzi un po' più del solito, come se lo spogliatoio potesse proteggermi dai miei genitori, ma alla fine la stanza inizia a svuotarsi e a dividermi da loro c'è solo una porta.

«Vuoi un passaggio per la festa?» mi chiede Mitch.

Mi infilo una felpa e scuoto la testa.

«Non ci vengo, i miei genitori sono qui. Vado a cena con loro».

Annuisce e si avvicina per salutarmi, picchiando un pugno contro il mio. Sembra aver dimenticato il modo in cui gli ho parlato all'ultima festa, mi da l'impressione di avere la testa sempre da tutt'altra parte. Come se non fosse mai realmente nel posto dove si trova. Richiamo il suo saluto e chiudo il mio armadietto. 

Se ne sono andati tutti, non posso nascondermi qui dentro adesso. Infilo il cellulare in tasca e mi butto il borsone sulla spalla, poi mi faccio coraggio. Mi immagino di avere Amy accanto, cammina insieme a me stringendomi la mano e ridendo alla mia imitazione di nostro padre. 

Getta la testa indietro e ride così tanto che alla fine non respira e si deve asciugare le lacrime. Mi si disegna un sorriso sulle labbra, ma muore non appena chiudo il pugno e mi rendo conto che non sto stringendo niente. Lei non è qui e non tornerà, devo affrontare la vita da solo adesso. Per un gemello è una cosa terribile, una cosa che spezza il cuore.

Sbatto le palpebre e mi chiudo la porta alle spalle, infilo il corridoio che conduce all'esterno e combatto il bisogno di accendermi una sigaretta. Non c'è già quasi più nessuno e ne sono felice, l'ultima cosa di cui ho bisogno è che qualcuno riconosca mio padre e dia di matto. Supero il cancello e mi ritrovo nel parcheggio, l'Escalade di mio padre mi salta subito all'occhio. Non la guida lui, ma il suo autista che aspetta fedelmente fuori dall'auto dritto come se avesse un bastone ficcato su per il culo. Mi avvicino e mi lancio uno sguardo intorno, nessuno mi presta attenzione.

Love, KennedyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora