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CHANDLER

Mio padre si presenta fuori da scuola una settimana dopo che io e Kennedy torniamo insieme. Esco da scuola e la sua auto con i finestrini oscurati è nel parcheggio, non c'è l'autista e questo è un brutto segno. Però, c'è la scorta. Non che questo possa impedirgli di mettermi le mani addosso. Potrei fingere di non vederlo, ma non ho voglia di scatenare una scenata e poi servirebbe solo a farlo arrabbiare ancora di più e mi farebbe più male. 

Mi caccio le mani in tasca e controllo che Kennedy non sbuchi alle mie spalle, è rimasto a studiare in biblioteca con Josh ed Elizabeth. Me ne sono andato perché sono stanco, non gli ho detto che i miei farmaci – che non sa nemmeno che assumo - mi causano molta sonnolenza e senso di confusione, pensa che il problema sia la mia insonnia e che per questo spesso mi addormento a scuola. 

Apro lo sportello dal lato del passeggero e mi infilo in auto, mio padre lascia il parcheggio senza dire una parola. Lo sguardo fisso sulla strada, le mani strette intorno al volante. Imbocca la strada che porta ad Atlanta e il silenzio continua a occupare tutto lo spazio, stiamo andando a casa. Non parlo, lui non dice niente. Riesco a sentire la rabbia e la disapprovazione che emana, è come un odore insopportabile. 

Un'ora dopo, siamo a casa. L'auto si ferma davanti al garage e non si prende nemmeno la briga di ritirarla, scende e io lo seguo. Voglio vedere mia madre perché sono preoccupato per lei, ma non chiedo se è in casa. Digita il codice sul tastierino del garage, quando la porta si solleva ci infiliamo dentro. Penso quasi di averla scampata, sono proprio uno stupido. 

Quando chiudiamo fuori il mondo, papà mi colpisce dritto in faccia con un pugno. Mi fa più male del solito perché indossa un anello del cazzo oltre alla fede, mi colpisce l'occhio e sento il sangue colarmi sullo zigomo.

«Vai avanti così, voglio vedere quanto può durare questa storia» sussurro.

Non urlo, non mi lamento, non piango. Mi sento vuoto, come se non avessi più niente da offrirgli.

«Sei sempre stato un problema, non so cosa diavolo devo fare con te».

Mi colpisce sulla bocca e mi mordo la lingua per l'impatto, sento il sangue riempirmi la bocca e mi si riempiono gli occhi di lacrime. Sputo accanto ai suoi piedi e mi rialzo.

«Qual è il problema?»

«Pago una persona per farti scopare e tu...»

«Hai pagato un pedofilo, che diavolo di problemi hai?» sbotto.

Si passa le mani tra i capelli e fissa il soffitto. Sembra stanco, ma grazie al cielo non ha le palle di dirlo. Non dico niente dei diari, voglio vedere se lo stronzo ha il coraggio di sentirsi minimamente in colpa per quello che ha fatto.

«Piantala con queste stronzate, ma ti senti quando parli?»

«Cosa diavolo vuoi da me?»

Mi si avvicina e mi fulmina con lo sguardo, è furioso ma io rimango immobile. Mi pulsa il viso, tanto per cambiare. Ho preso talmente tante botte che non sento neanche più dolore, sono diventato insensibile a ogni suo gesto. Può massacrarmi, resterei fermo a lasciarlo fare. Mi ha annientato, sono rimasto un bambino per colpa sua.

«Hai firmato un contratto, ti sei impegnato per questa famiglia e per questo Stato».

Sbuffo, mi viene da ridere.

«Non me ne frega un cazzo, né di questa famiglia né di questo Stato».

Non sembra apprezzare la risposta perché afferra un bastone di ferro e me lo picchia sul fianco. Porca puttana. Mi manca il fiato, per un attimo non riesco a respirare. Mi piego e cerco di recuperare fiato, ma lui mi colpisce ancora sulla schiena.

Love, KennedyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora