Capitolo Primo

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Francia, 1557.

La regina di Scozia, Mary Stuart era arrivata alla corte francese. Di lei si diceva fosse una ragazza di una bellezza sconfinata, dotata di umiltà, bontà d'animo e intelligenza. Una ragazza, che seppur di età così innocente, aveva già sulle spalle le sorti di un intero regno. Era giunta in Francia per sposare il principe ereditario, Francis De Valois. Il loro matrimonio serviva a garantire alla Scozia un'alleanza forte e duratura per l'avvenire. Io, semplice figlia di contadini, non avevo mai visto nessun nobile di persona, né mi ero mai avvicinata alla fastosa corte francese. A persone come noi era vietato l'ingresso, se non per lavorare nelle stalle o nelle cucine. All'epoca avevo ventidue anni. Il mio nome è Elizabeth. Sebbene non avessi potuto frequentare alcuna scuola, nelle ore di riposo che mi erano concesse,mi circondavo di libri, fogli, matite e penne e iniziavo a scarabocchiare qualcosa, il più delle volte fallendo miseramente. Mi piaceva disegnare, e molte volte, al tramonto mi munivo di un foglio bianco e una matita e mi sedevo in cima ad una collinetta, dove si poteva osservare il sole che calava pian piano lasciando il suo posto alla luna. Ed io disegnavo il suo profilo, delineando le ombre degli alberi, delle montagne retrostanti e delle casupole in lontananza.Della corte francese, tutti noi, eravamo obbligati a sapere qualcosa,soprattutto come diceva mia madre «Per portare in alto il nome del grande conquistatore Re Henry De Valois.» Per l'appunto, Re Henry si diceva fosse un conquistatore assetato di potere e di nuove terre da riunire sotto al suo predominio. Suo figlio, il principe Francis, si diceva fosse un ragazzo molto buono, generoso, ma un po' debole fisicamente. Catherine De Medici, la regina, si diceva fosse una donna maestosa, fiera, potente e furba. Aveva con sé il tipico spirito Italiano. Oltre alle verità ufficiali che ci era concesso sapere sulla corte francese, c'erano poi quelle ufficiose, diventate con il tempo sempre più permanenti. Tutti sapevano dell'amante storica del Re, Diane de Poitiers, dalla quale aveva avuto anche un figlio. Il bastardo Sebastian, preferito di Henry. Di lui si diceva fosse dotato di un fascino e di una bellezza fuori dal comune. Era un freddo pomeriggio d'inverno. La mia casa e quella dei miei genitori erano poco distanti. La mia non poteva nemmeno chiamarsi casa nel vero senso della parola. Era dotata di tre stanze in tutto, più un piccolo seminterrato da cui si accedeva tramite una botola sistemata sul pavimento. Era piccola, ma l'avevo sistemata secondo i miei gusti in un modo davvero accogliente. Faceva molto freddo quel giorno, ed io ero appena uscita per andare dai miei genitori a prendere della legna da ardere nel braciere. Lasciai la porta socchiusa, visto chela strada tra le nostre case era davvero poca. «Salve madre, padre.»dissi entrando. Tolsi il cappuccio che mi aveva riparato dalla neve che scendeva copiosa e chiusi la porta alle mie spalle. «Madre, ho bisogno di altra legna.» Lei si voltò e mi fece cenno di seguirla.Scendemmo in una piccola cantinola, dove i miei tenevano, oltre alla legna, dei vecchi mobili, coperte e scorte di cibo e vino. «Hai saputo, Beth?» io scossi la testa «Cosa dovrei sapere?» dissi prendendo della legna da terra. «Sebastian, il bastardo del Re è fuggito con Mary, la regina di Scozia. Sono appena passate delle guardie reali per controllare la nostra casa e vedere se stessimo nascondendo uno dei due.» Spalancai gli occhi per lo stupore. «Voi dite che quindi i due siano.» «Amanti - disse mia madre - cos'altro sennò? Perché avrebbero dovuto fuggire dalla corte quando il matrimonio con il principe Francis sembrava imminente?» «Madre, non giungete a conclusioni affrettate - provai a dire - voi non sapete tutti gli intrighi che ci sono alla corte francese. La regina Mary non avrebbe mai compiuto un gesto così azzardato, rischiando di rovinarsi per sempre la reputazione.» «Sarà.» disse mia madre,quasi dissentendo. Presi la legna e dopo aver dato un rapido bacio a mio padre sulla guancia, rimisi il cappuccio e feci per uscire. «Sta attenta alle guardie reali. Sono uomini, non si sa mai. Tieni sempre un bastone a portata di mano. » Io sorrisi, commossa da come mia madre, nonostante i miei ventidue anni, si preoccupasse ancora per me. Tornai a casa e lasciai cadere la legna sul pavimento. Sbarrai la porta, e dopo essermi tolta il mantello ormai gelato dalla neve,iniziai a mettere la legna del braciere. Un tonfo sordo si udii dalla piccola stanzetta adiacente a quella dove mi trovavo io. La legna rotolò lungo il pavimento, mentre io balzai in piedi con uno scatto fulmineo. Accanto al piccolo divanetto afferrai un lungo bastone in ferro che mi aveva "regalato" mio padre il giorno in cui avevo deciso di venire ad abitare in una casa tutta mia. « Chi c'è?» dissi stringendo con mani salde due estremità del bastone. Dall'altra stanza tutti i rumori erano cessati. Ora si sentiva solo il sibilare del vento tra le finestre. Il cuore mi stava per scoppiare. Ad un tratto tutto alla mia vista sembrava tremendamente offuscato. Non so se fosse merito della paura. « Se c'è qualcuno che lo dica ora, altrimenti potrei farvi davvero del male! » pochi secondi, poi una voce. « Non voglio farvi del male, vi prego. Non fatene a me. » il cuore iniziò a martellarmi ancor più incessantemente all'udire di quella voce. « Va bene, non vi farò del male.. ma uscite fuori! » feci qualche passo indietro, e lasciai che chiunque si fosse introdotto a casa mia adesso facesse la sua comparsa. Dalla penombra, una figura alta e vestita con abiti logori e sgualciti si presentò al mio sguardo. Un cappuccio gli copriva quasi interamente il volto, e non lasciava intravedere null'altro se non la sua bocca. « Toglietelo.» dissi risoluta. « Non posso. »fu la sua risposta. « Perché non potete? » « Perché chiamereste le guardie e il mio sforzo sarebbe stato inutile. » « Non chiamerò le guardie. Se avete bisogno di qualcosa da mangiare, posso darvi quello che ho, poi andrete via a cercare un altro posto dove stare. »« Mi avete preso per un vagabondo? » Avvertii nella sua voce una certa ilarità che non fece altro che innervosirmi. « Chi altri si intrufolerebbe a casa di una persona per cercare rifugio? Togliete il cappuccio, vi prometto che non vi farò del male. » Un lungo sospiro provenne da quelle labbra che sembravano l'unica cosa umana di quella figura che si stagliava prepotente davanti ai miei occhi. Ansimavo,ma cercavo di controllare i miei respiri, per non mostrare a chiunque si celasse dietro a quel cappuccio di avvertire la mia paura. Gli uomini sono come i lupi, se fiutano la paura attaccano senza pietà.Una mano coperta da un guanto strappato tirò giù il cappuccio verde scuro, e un paio di occhi misti tra il pervinca e lo zaffiro, si tuffarono nei miei. Era un ragazzo. Poteva avere circa ventisei o ventisette anni al massimo. Era alto, aveva i capelli castani. I suoi occhi somigliavano a quelli di un felino, svegli e attenti. Calmai i miei battiti e lasciai cadere il bastone alle mie spalle. Vedendo quel gesto, anche lui si rilassò visibilmente, e un grosso sospiro,che aveva albergato per quei minuti infiniti nel suo petto uscì fuori dalla sua bocca. Mi passai una mano sulla fronte, chiudendo gli occhi per un attimo, asciugandomi una perla di sudore che si era formata sulla mia fronte, sebbene fuori da quella casa la temperatura fosse molto bassa. « Come avete fatto ad entrare in casa mia? » fu la mia prima domanda. «Avevate lasciato la porta socchiusa.»Inarcai un sopracciglio in risposta alla sua affermazione così naturale da farmi sentire in torto seppure avessi ragione da vendere.«Vi sembra un buon motivo per intrufolarvi in casa d'altri?»sorrise in modo sbilenco e abbassò lo sguardo, sfregando i vecchi guanti sui suoi pantaloni logori. «Sembra che voi abbiate camminato molto tra i boschi, i vostri vestiti sono tutti laceri.» Lui annuì.«Si, sono in viaggio da tre giorni.» Misi le mani sui fianchi.Sembrava folle anche a me avere una conversazione con un tizio sconosciuto che mi era entrato in casa e mi aveva fatto rischiare un infarto, però dai suoi occhi leggevo che non aveva intenzione di farmi del male. Potevo anche sbagliarmi, ma dell'opinione una ragazza come me, nata e cresciuta nella povertà che aveva imparato ad arrangiarsi e a distinguere le persone con uno sguardo, ci si poteva fidare. «Ho dei vestiti nel seminterrato. Sono di mio fratello, li ha rimasti qui perché dice di non metterli più e a sua moglie non piace la confusione.» dissi tutto d'un fiato. «Mi chiamo Elizabeth.» dissi allungandogli la mano. Lui la strinse, senza rivelarmi il suo nome. Aspettai un po', poi chiesi «E voi siete?»lui inarcò entrambe le sopracciglia, e sorrise senza scoprire i denti. «Ehm.. Bash.» Sembrava visibilmente stupito. Non ci feci troppo caso, annuii e gli intimai di seguirmi. Presi una candela da uno dei tavolini che abbellivano la piccola sala da pranzo e scesi giù. Presi dei vestiti, tra cui maglie, pantaloni, scarpe e tante altre cose che mio fratello ormai riteneva antiquate. Mio fratello aveva sposato una nobildonna conosciuta durante un viaggio in Inghilterra e da allora si era sistemato lì. Insieme a lei aveva fatto fortuna, essendo quest'ultima molto ricca. Possedeva sia beni mobili che immobili, e tutto ciò garantiva a lei, a suo marito e ai loro bambini un avvenire prospero. Ed io non potevo che essere felice per loro. «Tenete Bash, questi dovrebbero starvi. Potete cambiarvi in quella stanza.» Gli indicai la stanza in cui si era nascosto qualche minuto prima e lui, senza dire una parola, entrò e si cambiò. Uscì qualche tempo dopo, con in mano i suoi vecchi abiti.«Ho lasciato la spada nella sala accanto. La prendo quando vado via,se non vi dispiace. E' molto pesante.» «Certo, non preoccupatevi.Date a me i vostri vecchi abiti, credo che non vi serviranno più.»Li presi e feci per gettarli via, quando, sulla parte destra della camicia notai del sangue. «Bash, siete ferito?» «Si, un piccolo taglio che ho subito cadendo da un dirupo, niente di preoccupante.»disse accennando un sorriso. Sembrava prendere tutto con ironia,persino la sua incolumità fisica. «Mi permettete di dare uno sguardo? Potrebbe infettarsi, quindi è meglio curarla in tempi brevi.» Lo vidi deglutire pesantemente, poi si tolse la giacca e alzò la camicia bianca che lo ricopriva. Un gridolino di orrore uscì dalla mia bocca prima che potessi portarvi una mano per farla tacere.«Santo cielo, Bash!» alzai la veste e corsi verso di lui inginocchiandomi e dando uno sguardo più da vicino. «Questo non è un taglietto, questa è una ferita molto profonda. Serviranno dei punti! Mio Dio, ci sono ancora dei residui di terra, ma siete impazzito?» dissi volgendo lo sguardo verso il suo volto, ora contrito dal dolore provocatogli dalla stessa ferita. Mi addolcii,vedendo il suo sguardo sofferente e senza dire una parola mi precipitai nel seminterrato a prendere del cotone da sutura, un ago,delle garze e un catino con dell'acqua. Tornai e Bash era ancora in piedi. «Sdraiatevi su quel divanetto. Adesso disinfetterò prima poi dovrò suturarla, altrimenti a lungo andare si infetterà.» Lo vidi impallidire, così cercai di sorridere e di rassicurarlo. «Non preoccupatevi, cercherò di fare tutto il più delicatamente possibile.» «Siete molto gentile. Non vedo perché dovreste avere tutta questa misericordia nei confronti di un uomo che si è introdotto a casa vostra.» Mentre preparavo le erbe per disinfettare, mi voltai verso di lui, ed il suo sguardo sembrava veramente stupito. «Sono nata da una famiglia cristiana, e lo sono anche io. Nella nostra religione si insegna ad amare ed aiutare il prossimo. Senza distinzioni, e voi adesso ne avete bisogno.»Sciacquai la ferita, poi posai delle erbe su di essa per qualche minuto, giusto il tempo di disinfettarla da tutto quello a cui era andata ad incappare. Poi venne la parte più difficile. «Se sentite troppo dolore afferrate questa coperta. Io cercherò davvero di fare del mio meglio.» Lui annuì. La prima sferzata fu sicuramente la più dolorosa. Il suo viso iniziava a prendere calore, la sua fronte era madida di sudore e la sua faccia era piegata in un ghigno di dolore massacrante. «Bash, parlatemi.» Cercavo di tirare qualche parola dalla sua bocca, per evitare che potesse svenire dal dolore. «Date mila mano. Stringete la mia mano.» Lui me la prese, ed iniziò astringerla, mentre io facevo del mio meglio per suturarlo con una sola mano. «La mia famiglia, cioè mia madre è di origini Pagane.Io sono Cristiano.» diceva, sforzandosi di articolare una conversazione per archiviare il dolore che lo stava sfinendo. «Bene,bravo Bash. Ditemi qualcos'altro altro.» Lo invogliavo a parlarmi,per evitare che potesse cadere in un sonno catalitico, capace di durare ore, o addirittura giorni. «Ho vagato molto, in questi giorni. Ho vagato per un misero errore che ho commesso. E adesso tutti pensano che sia un patetico ladro.» Aveva gli occhi stretti,una mano sulla fronte e con l'altra stringeva la mia come se fossi uno scoglio e lui stesse annegando in un mare in tempesta. «Bene,abbiamo quasi finito, questo è l'ultimo.» Con un ultimo punto chiusi la ferita. Tagliai il doppio cotone nero e riposi tutto in un piccolo catino bianco. Mi sedetti accanto a lui, e con una asciugamani gli asciugai il sudore che copioso gli scorreva dal viso.Ansimava, era affannato e stanco. Gli occhi erano stretti a fessura,come quelli di chi sta per cadere in un sonno profondo. Prese di nuovo la mia mano. «Grazie Elizabeth.» disse semplicemente. «Vi sono debitore.» Prima che potessi rispondergli che non aveva nessun debito nei miei confronti, cadde in un sonno profondo. Mi alzai.Ripulii e sterilizzai tutto quello che avevo usato per medicarlo e mentre lui dormiva gli misi una fascia che servisse a proteggerlo e ad evitargli lo sfregamento contro i vestiti. Presi la sua spada, la estrassi dal fodero e notai immediatamente un bellissimo stemma sull'estremità superiore della lama: un leone. Non era un semplice vagabondo, allora. Gli lucidai la spada, gli pulii le vecchie scarpe che erano ancora in buono stato e lo coprii con una coperta, quando vidi che aveva iniziato a tremare. Gli sfiorai la fronte e sentii che era bollente. Una ferita simile gli aveva portato la febbre. Riempii il catino con dell'acqua ghiacciata, presi una pezza e la imbevei.Gliela posai sulla fronte e lo coprii ancora di più, visto che era scosso da brividi incontrollati. Fortunatamente, mia zia era un'infermiera e quando andavo a stare da lei, mi insegnava come curare molte malattie e infezioni. Io affascinata, seguivo ogni minimo passaggio, desiderando un giorno di potermi sentire utile come lei. Dopo quattro ore, Bash si svegliò. Io ero accanto a lui, e controllavo se la febbre scendeva, cambiandogli di tanto in tanto quello straccio che gli avevo adagiato sulla fronte. La prima cosa che vide, fu il mio sorriso. E una zuppa fumante che lo attendeva sulla tavola in legno massiccio che troneggiava al centro della saletta. «Siete stata qui tutto il tempo? Quanto ho dormito?» «Ssh,quante domande. Avete dormito per quattro ore. Eravate molto stanco.»Lui fece cenno di si con la testa. «Perché ho questa .. cosa sulla fronte?» «Avete la febbre, vi serve per tenere bassa la temperatura. Siete affamato?» «Si, molto.» «Ce la fate ad alzarvi?» gli chiesi gentilmente. «Credo di si.» Gli porsi un braccio. «Di solito dovrebbe essere il contrario.» disse accennando un sorriso. «Di solito si - dissi - ma per questa volta faremo un'eccezione.» Lo feci sedere a tavola, e spazzolò tutto nel giro di dieci minuti. «Bene, vedo che avete gradito!» «Oh, si. Grazie.»Mi avvicinai di nuovo a lui, e poggiai una mano sulla sua fronte.«Siete ancora caldo, non potete andare via. Non oggi, almeno.» «Non credo di poter andare via, mi stanno cercando.» Mossa da un fremito di curiosità gli chiesi. «Ma chi vi cerca, Bash?» lui esitò un pochino. «Persone a cui ho fatto un torto, Elizabeth.» Sospirai.«Potrete stare qui, fin quando ne avrete la necessità. Non vi caccerò. Potete stare tranquillo.» Tolsi il piatto, e feci per sparecchiare. «Credevo che la misericordia non esistesse più.Credevo che persone come voi non esistessero più. Mi sbagliavo.»disse girandosi verso di me e puntandomi con i suoi occhi da gattino ferito. «Mi state dimostrando che Dio ha ancora misericordia verso di noi, poveri mortali, e la ripone in persone come voi, Elizabeth.Solo voi potete beneficiare della misericordia divina, e grazie a voi, ne può beneficiare anche chiunque decidiate di fargliene dono.Posso solo ringraziarvi, Elizabeth, e dirvi che tutto questo che state facendo per me non sarà vano. Ve lo prometto.» Mi posai le mani sulla mia veste azzurra, e feci per aggiustarla al meglio. «Non lo sto facendo perché voglio una ricompensa, Bash, lo sto facendo perché vedo che in questo momento ne avete bisogno. Non voglio nulla da voi, se non la vostra guarigione.» dissi sorridendo. Lo vidi sorridere, e scuotere la testa. Improvvisamente il suo viso fu attraversato da una fitta di dolore. «Bash!» mi precipitai verso di lui e lo afferrai. «State tranquilla, è solo un piccolo dolore alla ferita.» «Venite, vi porto sul letto.» Mi poggiò un braccio attorno alle spalle, mentre io lo sorreggevo con entrambe per mani per il busto. Così, e solo in quella posizione, riuscii a farlo arrivare incolume al letto. Si sdraiò, ed io salii dall'altro lato per aggiustargli il cuscino. Presi le coperte e gliele rimboccai fino alle spalle. «Per qualsiasi cosa chiamatemi, sono nella stanza accanto.» Gli passai una mano sui suoi capelli sicuri, umidi di sudore. Lui tutto ciò che riuscì a fare fu sorridere, prima di cadere di nuovo in un sonno profondo. Andai nella stanza accanto, e dagli scaffali tirai fuori i miei strumenti per disegnare. Aprii piano la porta della camera da letto ed iniziai ad avanzare verso di lui con passo felpato, per non farlo svegliare. Mi sistemai ai piedi del letto e poggiai il foglio bianco sulle mie ginocchia. Con la mina iniziai a delineare il suo profilo, e mi resi conto che aveva dei tratti molto armoniosi. Gli occhi da felino, le labbra sagomate e piene, in naso dritto, il viso ovale con mascelle forti e piccoli ciuffi di capelli castani che gli erano rimasti appiccicati sulla fronte per via del sudore. Rimasi per circa un'ora a modificare,cancellare, ombreggiare quel viso che mi sembrava fatto apposta per essere ritratto. Poi, decisi di andare a dormire anche io. Visto che il letto era occupato da lui presi delle coperte e, acceso il braciere, mi misi sul divanetto e mi addormentai lì.

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