Arleen. Mistress

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Mercoledì 4 luglio

Il gesto che la fantasmina aveva fatto mi era rimasto bene impresso nella mente per tutta la scia di emozioni che mi aveva scaturito dentro.
Era stato strano, improvviso, e nonostante le mille cose che mi erano esplose dentro in quel momento, fuori ero rimasta la Arleen glaciale di sempre.

Le labbra di Veronika erano state stranamente dolci, sapevano di sogni, sapevano di rivincita, sapevano di tutto quello che le veniva da dentro. Aveva chiuso gli occhi tagliando fuori tutti coloro che ci guardavano ma aveva escluso anche me. Passata la sorpresa del gesto mi ero persa un secondo per guardarla e quello seguente per decidere che forse a lei una carezza potevo darla. La stessa mano che aveva preteso quel cimelio a me molto caro, aveva ridefinito i limiti tra noi due. L’avevo abbracciata come tanto ne aveva avuto bisogno il giorno prima, l’avevo stretta a me prima di muovere le mie labbra sulle sue e cambiare quel momento da tipicamente imbarazzante a qualcosa di tenero.

Avevo lascisto che fosse lei a determinarne la fine, le avevo lasciato prendere quello di cui aveva bisogno donandomi a lei senza limiti.

Quando si era staccata però gli occhi che ci stavano guardando erano molteplici. Avevo cercato di sminuire il tutto sbeffando gli sguardi conosciuti e non dentro quella sala, poi avevo preso le foto che penzolavano dall’istantanea e sotto gli occhi ancora taciturni le avevo agitate aspettando che rivelassero i nostri volti.

Mi ero presa la più bella delle due, quella in cui si vedeva uno scorcio della mia anima, e l’altra l’avevo lasciata all’uomo, anche se non ero proprio d’accordo sul fatto che avesse qualcosa di mio. Tutto quello che era successo dopo non era affar mio, era stato proprio per questo pensiero che me ne ero andata quando nessuno mi stava guardando.

Quella maschera era una parte essenziale di me, nessuno poteva togliermela, nessuno poteva separarmi da lei a nessun costo.

Rivissi la scena per tutta la notte ponendomi domande su quanto quel fatto avesse toccato una parte di me che non sapevo esistesse.
Non volevo scordare quanto quel bacio mi avesse dato un secondo di pace dal mio caos interiore. Per questo, un po’ per gioco, un po’ sul serio, avevo incorniciato le nostre bocche e le avevo messe in bella vista all’ingresso.

Non mi sarei di certo aspettata che me ne sarei servita per cercare di allontanare Jona poco dopo. Era venuto a restituirmi la mia maglietta, in pratica era venuto per me.
Cercai con tutte le forze di allontanarlo tirando fuori le più cattive e fredde risposte, ma quando provò a farmi una carezza non riuscii a sottrarmi.

Accese qualcosa in me, qualcosa di strano, di diverso. Quasi cedetti.
Il contrasto tra quello che vedevo e quello che rappresentava facevano a pugni nella mia mente.

Lo volevo, lo volevo perché mi ispirava tutte le forme di peccato possibili. Jona non era Alex, Jona mi aveva capita e si stava offrendo proprio come volevo. Cercai di sbeffeggiarlo per testare quanto oltre si potesse spingere, gli scattai delle foto e in quel momento mi ricordai di quelle che sfoggiava nel suo studio.

No, non mi sarei fatta prendere in giro ancora una volta. Basta, doveva andarsene.

Lo invitai ancora una volta a prendere la via di casa, mettendolo a duro confronto con il fatto che non mi avrebbe mai potuta soddisfare.
Mi stavo solo illudendo che potesse funzionare.

Poi lo vidi in ginocchio con gli occhi a terra mentre cercava di non lasciarmi andare, ed io non risposi più di me stessa.

«Seguimi» gli ordinai mentre sparivo verso la mia camera. «Senza alzarti» aggiunsi senza guardarlo.

Lo sentii strusciare sul pavimento alle mie spalle fino a guardarlo superare la soglia della mia camera. Stava in silenzio, ma sapevo che non era per la sua indole sottomessa, ma più per una voglia di sapere fin dove mi sarei spinta, la stessa voglia che mi cresceva dentro.

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