Veronika. Disordine

577 46 57
                                    

Domenica 8 luglio

Era successo ancora. La mia parte insana era riaffiorata dal fondo della mia psiche, e aveva soffocato la Veronika che stavo cercando di diventare, senza pensarci due volte.

Quando avevo visto quell’assegno penzolare molliccio dalle dita di Ryan, ero impazzita. Letteralmente. Ogni cosa aveva assunto un contorno sfocato, le pareti si erano polverizzate così come tutto il mobilio. Il tempo era stato risucchiato da una grossa bolla placida e ogni secondo si era allargato fino a diventare eterno. In quella specie di limbo bianco c’eravamo solo io e l’ex modello. Solo noi due. Per questo e altro, mi ero scagliata come una furia contro quella strana dimensione onirica. Ero stata sicura che non mi sarei fatta nulla. In fondo avrei colpito il nulla.

Poi quando avevo tirato il primo pugno e le nocche si erano scontrate contro qualcosa di duro, quello spazio galleggiante si era frantumato davanti ai miei occhi e io avevo dovuto fare i conti con la realtà. Però non mi ero fermata. Avevo continuato a colpire ogni cosa che mi fosse capitata a tiro, non era importante sapere che tipo di oggetto fosse, non me ne poteva fregare di meno. Che fosse una sedia o la libreria, era e restava un oggetto esanime su cui dovevo sfogarmi. Tanto non mi avrebbe risposto. Non mi avrebbe urlato di fermarmi, non mi avrebbe rinfacciato la mia follia e di certo non avrebbe tentato di arginare il fiume impetuoso di rabbia che mi scorreva nelle vene. Avrebbe subito in silenzio, senza nemmeno provare a ribellarsi.

Per questo avevo continuato a colpire, nonostante i tagli che diventavano sempre più grandi e il sangue che aveva iniziato a scorrere in sottili rigagnoli, con l’unico obiettivo di distruggere, di fare del male, incoraggiata da quella vocina malefica che si era trasformata in un’infame compagna di vita.

Tuttavia non ero riuscita a reggere a lungo. Ero crollata quasi subito e le cateratte si erano rotte. Non avrei mai saputo dire se grazie a o per colpa di Ryan, quella era una scelta. Un punto di vista relativo.

Avevo singhiozzato a lungo come una bambina, cullata solo dalla sua voce e calmata dalle sue dita che mi accarezzavano il capo. Il motivo della nostra lite, in quel momento, era così lontano da sembrare un sogno amaro.

L’idea che lui avesse pensato che mi sarei fatta mettere volentieri incinta solo per assicurarmi un futuro, mi aveva ferita. Ma non era lo stesso dolore che si prova quando vedi il tuo ragazzo a letto con un’altra o quando tua madre ti molla uno schiaffo ingiusto, no. Era il dolore di chi si accorge che quella che credeva fosse fiducia, è in realtà pura convenzione. Il dolore di chi sa che, nonostante ogni tentativo di cambiamento, sarebbe stato sempre vittima del suo passato. Un passato che l’avrebbe segnato per sempre, etichettandolo in base ai pregiudizi, come uno sbaglio. Un inutile e inconsapevole sbaglio.

Io non  ci ero rimasta male perché Ryan aveva tirato l’argomento figli – la mia speranza di diventare madre era morta definitivamente, quando avevo scoperto di essere rimasta incinta e Mike mi aveva pestata fino a farmi sputare ogni singola goccia di sangue che avevo in corpo – ma perché anche se era passata una settimana, ancora non riusciva a fidarsi pienamente di me. E questo era peggio di una pugnalata alla schiena.

Però non ero rimasta delusa e ferita a lungo. Quando l’ex modello si era precipitato verso di me, facendomi tornare di nuovo, avevo ricacciato la rabbia in un angolino remoto del mio cuore e mi ero abbandonata alle lacrime. E mi ero sentita subito meglio.

Quando mi aveva chiesto scusa in un sussurro, non avevo avuto il bisogno di rifletterci su.  L’avevo perdonato subito, con la stessa facilità con cui si svuota un bicchiere d’acqua.

Gli avevo fatto cenno di abbassarsi e gli avevo allacciato le braccia attorno al collo. Le labbra si erano incontrate, gli occhi si erano chiusi e le mani si erano cercate.

BondingsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora