Arleen. Epilogo

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«Facciamo tardi!»

Di solito era l’uomo a dire queste cose alla donna, ma in quel momento ero io quella che urlava impaziente dalla sala in attesa che il mio cavaliere fosse pronto.
Beh, dovevo dire che avevo il mio vantaggio almeno sul vestire, perché mentre lui doveva abbinare giacca camicia e cravatta, io indossavo una grande tonaca nera dal quale era stato facile far risaltare il mio volto pallido.

«Devo sempre essere in forma, non si sa mai» rispose lui emergendo mentre finiva di annodarsi la cravatta.
La sua frase irritava la mia ansia talmente tanto che la mia curiosità vinse e uscì fuori.

«Che vuol dire “non si sa mai”?»

«Che potresti non fare carriera come dottoressa e allora potrebbe far comodo conoscere qualche facoltosa ragazza, giusto per tirare avanti.»

Come se fosse la frase più classica da dire, non le aveva prestato la minima attenzione, continuando nell’aggiustarsi il pezzo di stoffa sotto il collo.

«Evans!» esclamai cercando di far uscire un po’ di pressione solo in quella parola, invano. «Sai che in quanto laureata in medicina conosco circa duecento modi per farti fuori e far sparire le mie tracce? Quindi cerca di non tentarmi.»

Lui di risposta si avvicinò a me e mi diede un bacio sulla fronte. «Lo so, e sono fiero di te, e scusa se ci sto mettendo molto, ma voglio essere impeccabile per questo giorno. Il giorno in cui la mia donna si laurea e anche quello in cui inevitabilmente conoscerò i miei futuri suoceri.»

«Non potevo non invitarli.»

«Non ho detto questo Cherì, solo che capisci che anche io ho una dose di ansia che mi attanaglia.»

L’ansia non sarebbe servita a nessuno dei due perché tutto poi andò liscio come l’olio, l’unica nota triste e divertente allo stesso tempo, è che mentre i miei compagni di corso festeggiavano tra loro con le bottiglie di spumante tra le mani, io non avevo amici con cui condividere la mia gioia se non con Matt e la mia famiglia. Dio solo sa in quel momento quanto mi siano mancate le persone  che mi avevano accompagnata nell’ultimo anno nel mio percorso di scioglimento dei ghiacciai che mi portavo dentro.
Però la nota positiva era che mentre tutti festeggiavano con dello scadente prosecco, io mi stavo scolando una bellissima bottiglia di Chateau margaux del ‘97, regalo ovviamente dell’unico uomo che mi conosce e che poteva permettersela.

Con quella già pesantemente in circolo, desideravo solo di tornare a casa e festeggiare come si deve questo traguardo che aveva avuto alti e bassi, periodi sì e periodi no, ma che tra mille fatiche era comunque giunto al termine.

«Dove stai andando?» chiesi al mio autista. «Sono ciucca, ma riconosco che questa non è la strada di casa.»

Matt non mi degnava di uno sguardo, continuava a guidare, mantenendo sul volto quel sorrisino che la sapeva lunga.
Quando si fermò ero ancora più confusa, eravamo sempre a San Diego, credo, ma quel posto non lo conoscevo di sicuro.
Era un grandissimo palazzo, immenso, assomigliava in stile e fattezze al “Parco dei principi”, ma non era di certo lui.
Matt parcheggiò, poi venne dal mio lato ad aprirmi la portiera visto che non mi decidevo a scendere, occupata nello studiare quel capolavoro architettonico ancora chiuso al pubblico.
Infatti le luci erano spente e se non fosse stato per un addetto alla security davanti alla porta d’ingresso, non mi sarei mai sognata di varcarla, convinta di fare una effrazione.

Quando però lo feci, quando superai la porta girevole tuffandomi nella penombra del locale, tutto si accese come per magia, regalandomi uno spettacolo unico ai miei occhi.
Tutti i miei amici, tutti quelli che avevo conosciuto negli ultimi tempi, erano lì, pronti a festeggiare il mio traguardo con me.
Davanti a tutto quell’improvviso stupore non potei fare a meno di versare una lacrima di commozione.

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