Matthew. Frustrazione

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Giovedì 5 luglio

Ero diventato un cliché: questa era l’unica spiegazione. Come interpretare, altrimenti, il fatto che ogni singola, maledetta giornata potesse essere etichettata come una giornata di merda? Ero, dunque, diventato uno di quei cliché con più problemi che soldi in banca. Ed era tutto dire.

Avevo iniziato quella giornata con Iris nel mio letto e Dio solo sa quanto mi era costato lasciare che andasse via senza avere modo di proteggerla, fare qualcosa per lei, darle il mio sostegno: le avevo solo potuto dare il mio numero di telefono, prima che scappasse. Era evidente che, crescendo, fosse diventata una ragazza cocciuta, che faceva sempre tutto di testa sua, e tentare di convincerla di qualcosa, se questo qualcosa non rientrava nei suoi interessi, era deludente quanto aspettare la pioggia in una torrida e soleggiante giornata d’agosto.

Nascondeva la sua fragilità, quella che mi aveva mostrato la sera precedente fuori dall’hotel di Llanos e al mare, dietro questa sua corazza di ragazza indomabile e sfuggente come il vento, ma avevo come la sensazione che, in realtà, col vento c’entrasse poco: nei suoi occhi si leggeva la voglia di trovare un appiglio, una stabilità, un punto fermo, più che la voglia di essere volubile e inafferrabile.

Era come una creatura selvatica che brama di essere addomesticata; una creatura che, con occhi avidi e curiosi, sta scoprendo per la prima volta e poco a poco il mondo fuori dal suo territorio e le sue caratteristiche. Chissà come aveva vissuto, fino ad ora.

Iris era fragile e pericolosa.

Praticamente una bomba a orologeria.

Non avevo avuto modo di rivelarle quello che sapevo, o meglio non avevo ancora capito come farlo. Volevo prima conoscerla, studiarla, comprendere quale fosse il modo più adatto di pormi con lei per darle una notizia simile senza sconvolgerla, né lei né quel suo equilibrio già all’apparenza abbastanza precario. Quel che era certo è che l’avrei aiutata, l’avrei fatto per me e per lei e in nome di tutto quello che dovevo alle nostre famiglie.

Ryan aveva chiamato poco dopo che Iris era uscita da casa mia, ponendomi una domanda secca: «Testa o croce?»

«Che?»

«Avanti, testa o croce?»

«Cos’è tutta questa allegria mattutina, Morgan? Hai finalmente tolto le ragnatele dalla gabbia e fatto volare l’uccello?»

«Evans, testa o croce, non te lo ripeterò un’ultima volta» ringhiò. Mi sa che l’avevo fatto incazzare. Sorrisi appena, scompigliandomi i ricci indomabili.

«Croce.»

«Ottima scelta, Evans: si dà il caso che all’hotel di Llanos, sul set del film di quel regista da strapazzo, ce ne sia giusto una a cui potrai comodamente essere legato. Hai appena vinto un provino per il personaggio del gigolò.»

Risi sonoramente, non riuscendo a trattenere le lacrime: quella scena era talmente assurda ed esilarante, che mantenere un contegno risultava impossibile.

«Ancora con questa storia? Ma poi, dico, sei matto? Mi ci vedi, legato a quella cosa? Non se ne parla, amico, non lo farei nemmeno se divenisse improvvisamente l’unico modo per scopare. Meglio crepare povero, che venire a contatto con una di quelle.»

«Occhio, Matt, che a dire che certe cose non si avvereranno mai, finisce che accadono per davvero.»

Sbuffai, spazientito. «Non credo proprio.»

«In ogni caso non cambia il punto della situazione: tu oggi andrai a fare quel provino e lo farai per me e per il mio desiderio di avere meno uomini sconosciuti possibile attorno a Sunny, in nome della nostra meravigliosa amicizia.»

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