Kat. Scarabocchi

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Venerdì 29 Giugno

La flebile luce del mattino cominciò a farsi strada nella camera degli ospiti in cui mi aveva portato Sunny, dall’enorme finestra situata proprio accanto al letto.

Erano luci opache, soffuse, dolci… quelle luci che ero sicura mi avrebbero fatta addormentare tranquillamente, se non fosse stato per quell’incombente paura che non mi aveva fatto chiudere occhio per tutta la notte.

Quell’uomo la sera prima mi aveva spaventata a morte, almeno quanto l’arrivo di quella sconosciuta.

Per un attimo avevo avuto come la sensazione che stesse per ricapitare di nuovo; che quel Mike fosse solo un brutto presagio prima della terribile catastrofe che si sarebbe scatenata; che quella Veronika avrebbe portato guai, proprio come io, in passato, ne avevo portati a bizzeffe a persone che non c’entravano assolutamente nulla.

Mi era bastato poco tempo per interpretare quella vicenda: lei, una ragazzina che fuggiva terrorizzata da un uomo che, probabilmente, la stava maltrattando e schiavizzando; lui, un uomo che non si arrendeva e otteneva ciò che voleva, con un’ossessione per tutto quello che riteneva suo.

Sapevo cosa volesse dire essere braccate, avere il fiato di qualcuno sul collo ed essere costantemente controllate, non avere più alcuna libertà o diritto di far niente.

Mi sembrava ancora di sentire quel tocco viscido sulla pelle, di sentire quelle mani che si intrufolavano dappertutto e quella voce che mi biascicava all’orecchio: Sei solo mia. Tutta mia, solo per me.

Tutte le volte era come immaginare di avere delle corde attorno ai polsi che mi stringevano e tagliavano, ma dalle quali non ero capace di liberarmi per poter dimenticare per sempre quella brutta storia.

Era un inferno dover convivere con quelle immagini nella testa, sapendo che nessuno avrebbe mai potuto capire o sapere.

Scrivere mi dava sollievo, mi aiutava a mettere nero su bianco ciò che mi era successo; mi aiutava ad ammettere che era successo qualcosa e che, nonostante tutto, non avrei mai potuto fare a meno di ricordare.

Era come se, scrivendo, qualcun altro si facesse carico dei miei problemi, di quel grosso peso che mi portavo alle spalle e che, quindi, non fossi l’unica a quel mondo ad aver patito tutte quelle torture.

E in quel momento quale tortura stavo subendo?

Ma certo: quella di essere costantemente seguita e di avere come la sensazione che quel Mike e quella Veronika potessero distruggere tutto quello che avevo costruito.

Sicuramente avrei saputo come lavorare.

Mi alzai dal letto e cominciai a indossare i miei abiti, che la sera prima avevo gettato con noncuranza su di una sedia. Era inutile rimanere ancora in quel posto e continuare a crogiolarsi fra le lenzuola. Sunny era una persona adorabile e squisita, avrebbe capito ragionevolmente perché me ne stavo andando via da casa.

Scrissi su di un post-it: “Grazie per la piacevole serata, ho del lavoro da sbrigare, ci sentiamo presto!”. Il che non era completamente una bugia: Alexander mi aveva chiamato decine di volte ormai e spedito una dozzina di messaggi.

Plausibile, in fondo non lo avevo avvertito della mia uscita serale.

Uscii dalla camera facendo attenzione a non fare rumore, in modo da non disturbare nessuno, e attaccai il post-it proprio sulla porta, quando ecco che una voce virile mi bloccò facendomi pietrificare, come se fossi una ladra che era stata colta sulla scena del crimine.

Era Ryan che chiese stizzito, come al solito: «Cosa stai facendo?»

Sobbalzai istintivamente e mi voltai verso di lui, quasi spaventata. Essere colta di sorpresa non era nella mia lista delle cose preferite, ma inutile andare a rispiegare il perché di quel mio modo di essere.

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