Matthew. Sacrifici

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Mercoledì 11 giugno

Ogni giorno ne succedeva una.

Quella mattina le prove si erano interrotte a causa della fuga di Veronika e da allora vagavo nell’hotel come un’anima in pena. Non trovavo pace, passando dalle sigarette fumate sui balconi alle passeggiate sulla spiaggia privata, tutto, pur di non pensare.

Il passato che avevo tanto cercato di cancellare, di chiudere a doppia mandata dietro la facciata di spavalderia che mi contraddistingueva insieme ai miei ricci e alle mie indubbie abilità sessuali, si era prima affacciato timidamente nella mia vita, con l’incontro fortuito alla mostra di Jona, poi aveva deciso di irrompere direttamente e piombare tra capo e collo non solo nella mia, di vita, ma anche in quella di Kaylee e, indirettamente, di Gonçalo. Nella vita di tutti in realtà, ipoteticamente, a pensarci bene.

La sera prima, nella corsa folle verso casa mia, avevo visto per la prima volta la maschera di contegno che Kaylee aveva sempre indossato incrinarsi. Era sconvolta dal dolore per la violenza subita dalla madre, oltretutto non sapevamo cosa aspettarci e in che condizioni avremmo potuto trovarla. Era scossa da singulti interni che la facevano tremare come una foglia, seppure non fosse capace di versare nemmeno una lacrima. Il profondo dolore sembrava placarsi solo tra le braccia di Gonçalo, che la stringeva a sé senza dire una sola parola, guardando fisso di fronte a lui con i lineamenti induriti dalla rabbia e dal senso di protezione per la donna che… amava?

Una volta arrivati a casa, Kaylee si era precipitata nella mia camera da letto, dove Eleanor si trovava distesa supina, con le braccia e le gambe spalancate, vestita solo dell’intimo, in stato di incoscienza. Aveva il volto tumefatto, un livido violaceo si stava espandendo sempre di più a circondare l’occhio e lo zigomo sinistro e il suo non più tanto giovane ma comunque meraviglioso corpo era pieno di ematomi e graffi in ogni punto. Avrei giurato che si fosse difesa con tutta la dignità di cui era capace.

Mentre Kaylee teneva stretta la mano della madre, accucciata ai piedi del letto, e Llanos chiamava il 911 per richiedere un’ambulanza, io mi concentrai sul biglietto che stava al fianco di Eleanor. Era un cartoncino di un bianco sporco, chiazzato da qualche sporadica piccola goccia di sangue e non c’era scritto molto, solo un nome: Kevin. Tanto bastava per farmi capire tutto, tutto quanto.

Dopo che i paramedici ebbero caricato Eleanor e sua figlia in ambulanza alla volta dell’ospedale più vicino, io rimasi solo con Llanos a casa mia. Lo invitai in salotto e versai a entrambi una dose generosa del whiskey più buono e invecchiato che possedevo; entrambi ci accomodammo sul mio ampio divano e sorseggiamo il liquido ambrato in silenzio. C’era poco da dire, in effetti: l’avvenimento aveva sconvolto pesantemente la nostra serata e ogni parola ci sembrava decisamente superflua. Sono sopravvalutate, certe frasi, in determinati contesti.

Fu Gonçalo a rompere il silenzio, facendo tintinnare il bicchiere cesellato sul cristallo del tavolo presente in salotto, voltandosi lentamente verso di me e guardandomi dritto negli occhi.

«Perché Eleanor era a casa tua? Pochi scherzi, Evans. Voglio sapere solo la verità: non sarà difficile scoprire che mi hai mentito, Kaylee ha un fascicolo grosso così, su di te» disse, lasciando una distanza di almeno cinque centimetri tra indice e pollice.

«Non ho intenzione di mentire, l’ho fatto per così tanto tempo» dissi, lasciandomi cadere pesantemente sullo schienale del divano. «Si chiamava Dafne. Dafne Hilton.»

«La ricca ereditiera che a diciannove anni ha sbandato mentre andava a centottanta ed è andata fuori strada precipitando nello strapiombo?»

«Proprio lei.»

«Ne hanno parlato tutti i giornali, per secoli. Il padre era disperato. Cosa c’entra con te?»

«Dafne era una mia cliente… forse anche qualcosa di più, in realtà. Sgattaiolava tutte le notti a casa mia - è l’unica che non ho mai incontrato in una stanza d’albergo - , facevamo sesso, fumavamo una sigaretta e ci godevamo il panorama notturno di San Diego. Non aveva bisogno di un gigolò: era bella, ricca, giovane e intelligente, ma viveva soffocata dal torchio paterno e io ero la sua marachella dell’anno. “Ricca ereditiera perde la verginità con un gigolò di lusso, pagando profumatamente ogni sua performance e aspettandolo ogni sera a casa dopo che va a letto con le sue altre clienti”, te lo immagini? Il padre sarebbe andato su tutte le furie.»

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