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Baduk 바둑

Jin osservava la scacchiera con aria concentrata, la schiena leggermente piegata in avanti e la fronte corrucciata, mentre si passava ripetutamente la mano tra i capelli.

Sua nonna si era autonomamente assunta l'incarico di insegnargli a giocare a Baduk. Erano passati tre mesi dalla prima volta che aveva provato a mettere mani su quella scacchiera, il goban, ma il ragazzo provava sempre la stessa sensazione di smarrimento.

Si ripeteva il suo obiettivo: il controllo di una zona del goban maggiore di quella controllata dalla nonna. Per fare questo le sue pietre dovevano essere posizionate in modo tale che non potessero essere catturate.

Dentro il salone regnava un rigoroso silenzio da due ore e Jin poteva giurare di essere in grado di sentire la vicina di casa respirare.

Il Baduk, in Occidente meglio conosciuto come Go, era il gioco più antico tutt'oggi praticato, dalle regole semplici, ma dalla strategia complessa, soprattutto se si giocava contro una donna con anni e anni di esperienza.

La nonna gli aveva raccontato che c'erano talmente tante possibilità in cui mettere le pietre che un proverbio coreano recitava che: nessuna partita di Baduk era mai stata giocata due volte.

Jin si tirò leggermente i capelli e dopo un respiro profondo prese una pietra nera e lanciò una veloce occhiata alla nonna che stava pigramente riordinando le sue pedine bianche.

Avvicinò la mano alla scacchiera e, continuando a pensare se la mossa che stava facendo fosse giusta, la abbassò lentamente. Stava per lasciarla, quando la porta di ingresso si aprì di scatto sbattendo con la maniglia contro il muro.

Il ragazzo si spaventò e spostò di scatto la mano trascinando via tutte le pietrine sulla scacchiera.

Di istinto alzò lo sguardo verso la nonna che socchiuse gli occhi e sospirò.

«Mi sono stancato!» Urlò il fratello chiudendo la porta con una spinta tale che oltre a provocare un forte boato, fece tremare le pareti del loro appartamento.

«Lo ammazzo?» Domandò a bassa voce Jin alla nonna, la quale rispose annuendo lentamente.

Il secondo genito, senza degnarsi di salutare, si diresse in cucina e sempre con una delicatezza da orco, aprì il frigorifero e prese in mano una bottiglia di Soju, un distillato sudcoreano a base di riso, frumento e orzo, con un'alta gradazione alcolica.

La nonna si alzò di scatto, ma Jin la bloccò con un: «Ci penso io.»

Si affrettò a raggiungere la cucina, posò con forza una mano sulla spalla del fratello e, con poco sforzo, gli tolse la bottiglia di alcool dalle mani.

Il ragazzino fece per protestare, ma il fratello lo spinse addosso al muro obbligandolo a chiudere gli occhi dal dolore.

«Sei forse impazzito del tutto?» Mormorò a denti stretti avvicinando le labbra all'orecchio del fratello. «Lee Cho, qualsiasi cosa ti sia successa non è questo il modo di reagire.»

«Per te è facile.» Rispose il ragazzo piegando le sopracciglia in quella che apparve a Jin un'espressione disperata. «Per te è facile!» Ripeté urlando. «Te sei bravo in tutto! Tutto quello che fai!» Con forza lo spintonò via e Jin non oppose resistenza.

«Sono obbligato a studiare cose che non mi piacciono!» Continuò sbraitando. «Cosa ci devo fare col latino e il greco? Sono lingue morte! Morte! Come la mia voglia di vivere!»

Jin fece per parlare, ma il fratello soffocò un urlo prendendosi la testa fra le mani, per poi avviarsi a grandi passi verso la loro camera. «Volevo solo fare musica!» Urlò ancora prima di sbattere con forza la porta della cameretta.

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