Saltellando.

La luce proveniente dal frigorifero aperto sembrava un riflettore in mezzo al buio che circondava la cucina. Valerio si morse il labbro, concentrato nel fare meno rumore possibile, non voleva svegliare gli altri. Afferrò la bottiglia di latte e accese la torcia del telefono prima di chiudere il frigorifero. Con attenzione prese un bicchiere tra i piatti rimasti nella lavastoviglie e lo riempì.

La mano gli tremava mentre lo portava alla bocca. Si fermò. Fece un respiro profondo e bevve tutto di un sorso. La fronte era mandita di sudore e si obbligava a fare dei bei respiri per non farsi prendere dal panico. Ormai aveva capito qual era l'ordine degli eventi: si addormentava intorno a mezzanotte, riusciva a dormire tranquillo per tre ore poi comparivano gli incubi, si svegliava sudato, entrava in iperventilazione e non riusciva più a controllare quella sensazione orrenda dentro di lui, il cuore iniziava a battere forte, il respiro sembrava farsi sempre più corto, gli sembrava di morire, da un momento all'altro. Ma poi tutto finiva.

Ora però stava imparando a controllarlo. Doveva solo respirare. Il latte lo aiutava a trovare quella sensazione di conforto che gli mancava.

Da piccolo quando succedeva suo padre era sempre pronto a correre da lui e Valerio non capiva come ci riuscisse. Pensava rimanesse sveglio tutta la notte per poter essere così pronto a soccorrerlo. E si sentiva in colpa.

Lo aveva mandato da quello che da piccolo chiamava uno strizzacervelli. Lo odiava il Signor Rick. Era già visto come il bambino strano, ci mancava solo lui. Lui con le sue domande insistenti, quella ossessione che non capiva sul voler sapere così tante cose su sua madre, sulla sua morte, su come si sentisse lui. Lui non l'aveva mai conosciuta. Non poteva mancargli qualcuno che non aveva mai conosciuto. Non rispondeva mai a quelle domande. Allora gli domandava dei sogni. Avrebbe risposto se solo se li fosse ricordati. Ricordava solo la sensazione.

Quella sensazione di paura, freddo e ansia.

«Non riesci a dormire?»

Il ragazzo si girò di scatto e il bicchiere gli scivolò dalle mani andando a frantumarsi sul pavimento. Spaventato fece un passo indietro e un pezzo di vetro si conficcò nel piede nudo. Strinse gli occhi dal dolore, mentre la cucina si illuminava rendendo così la scena visibile.

Ai piedi del ragazzo le schegge del bicchiere erano tinte di rosso. La sua mano era stretta all'angolo del tavolino di marmo. Il volto era piegato verso la spalla, gli occhi ancora chiusi erano stretti e da questi scendevano lente delle lacrime.

«Rio, mi dispiace, cavolo!» Esclamò Jasmine correndo verso il lavandino, afferrò della carta scottex e una scopa e tornò verso di lui. «Mi spiace, mi dispiace tantissimo, non volevo.» Mormorò allontanando il bicchiere e le sue schegge dal ragazzo. Questo non si muoveva.

Lei si piegò verso i suoi piedi e afferrò il tallone destro per capire come medicarlo, ma lui lo ritrasse subito. Jasmine alzò la testa di scatto. «Ti ho fatto male? Rio?» Si alzò e notò come stesse tremando silenziosamente. Jasmine aggrottò le sopracciglia piena di sensi di colpa e avvicinò una mano alla sua guancia per calmarlo. Lui non le diede modo e lentamente si lasciò scivolare a terra. Era completamente sudato, i capelli gli si erano attaccati alla fronte, così come la maglietta del pigiama si era appiccicata al petto.

Alzò lo sguardo su Jasmine, gli occhi azzurri erano circondati dalle vene rosse e ricolmi di lacrime terrorizzate, le chiedevano silenziosamente aiuto.

La mora si avvicinò lentamente e si accucciò accanto a lui, dove il latte era ancora sparso a terra. Non ci badò. Gli portò una mano sulla fronte e gli scostò delicatamente i capelli. «Va tutto bene.» Disse piano, ma non ne era convinta nemmeno lei. Lo spinse sulla sua spalla e lo abbracciò, cullandolo lentamente. «Va tutto bene.»

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