4 - La prima paura (II)

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Cancro
"L'acidità l'avete nel sangue.
Sì, Claire Jane Cooper,
sto parlando con te".

Un velo di pellicola trasparente avvolgeva il busto di Christian, ma sotto di esso il tatuaggio era ancora ben visibile. Continuai a osservare i rami che si arrampicavano quasi fino al petto, mentre Dylan si affrettava a recuperare uno specchio.

Adesso che lo studio era vuoto mi sentivo un po' meglio. Era stata dura abituarsi a quel rumore, ma a un certo punto Dylan aveva iniziato a raccontarmi della sua fidanzata di origini irlandesi e della madre di lei completamente folle e mi ero quasi rilassata. Quasi.

Lanciai un'occhiata alle mie mani, ancora bianche da quanto le avevo strette tra loro. Doveva esserci qualcosa di sadico in me, perché provavo una sorta di soddisfazione per come avevo superato quel pomeriggio.

«Sei pronta?».

Sollevai gli occhi in tempo per vedere Christian infilarsi la maglietta con un gesto brusco. Non aveva più parlato dopo la mia domanda sul suo tatuaggio, ma Dylan era stato abbastanza loquace per entrambi.

Prima che potessi sottolineare che fossi pronta da un pezzo, fu proprio lui a inserirsi nella conversazione.

«Se provi ad allenarti prima dei prossimi tre giorni, non presentarti più qui» lo ammonì serio, appoggiando a terra lo specchio. Era evidente che a Christian non interessasse vedere il tatuaggio perché non aveva neppure sollevato gli occhi verso di lui. E dal gesto veloce che fece con il mento, sembrava evidente che non fosse interessato neppure alle sue minacce.

«Sono serio, Case» continuò Dylan esasperato. «Mi sono rotto di sistemarti ogni volta che fai un casino».

Christian mosse il capo spazientito. «Ho capito, non vuoi che mi alleni» ripeté, ma i suoi occhi erano ancora su di me. «Come stai, secchiona?» chiese piegando le labbra in un lieve sorrisino.

Alzai gli occhi al cielo. «Tutto bene» confermai. Era più facile fingere che quell'esperienza non mi avesse toccata, ora che la macchinetta non ronzava più. Il mio stomaco, però, era ancora sottosopra.

Lo vidi annuire, ma mi osservò ancora per qualche istante come se si aspettasse che svenissi da un momento all'altro. A un certo punto, dovette valutare che fossi abbastanza stabile sulle mie gambe, perché tornò a rivolgersi a Dylan. «Grazie fratello, ci vediamo la prossima settimana». Distese una mano sulla porta, tenendola aperta anche per me.

Salutai a mia volta Dylan e, non appena i miei piedi raggiunsero l'esterno, feci un profondo respiro purificatore. Sentivo i capelli appiccicarsi al collo per il leggero vento che proveniva da ovest, ma non mi dava fastidio. Tutto ciò che poteva farmi dimenticare le due ore appena passate in quel posto era una distrazione che accoglievo a braccia aperte. M'incamminai verso la macchina, pronta a mettere quanta più distanza possibile tra me e lo studio, quando una mano sulla spalla mi bloccò.

Voltai il capo in tempo per vedere Christian accennare allo Starbucks dove volevo rintanarmi solo un paio di ore prima. «Ho bisogno di un caffè» mi comunicò.

«E io ho bisogno di andare a casa» ribattei inarcando un sopracciglio. Dovevo ancora studiare per il compito di algebra e avevo due tesine da completare. Quella giornata era durata già abbastanza per i miei gusti.

Christian mi guardò impassibile per qualche istante, poi piegò le labbra in un sorrisino impertinente. «Prego». Staccò la mano dalla mia spalla e indicò la strada dietro di me, voltandosi subito dopo in direzione della caffetteria.

Lo guardai sbalordita. Ma faceva sul serio? Erano almeno tre miglia!

Lasciai uscire un sospiro esasperato, mentre alternavo lo sguardo dalla sua schiena alla strada. Perché doveva essere così irritante in tutto ciò che faceva?

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