20 - L'accordo (II)

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Il viaggio di ritorno durò quanto un battito di ciglia. Sapevo solo di aver chiuso gli occhi mentre Christian era ancora intento ad allacciarmi la cintura di sicurezza, per poi riaprirli nel momento in cui mi aveva chiesto dove tenessi le chiavi di casa.

Quando il portone d'ingresso si aprì, io ero ancora così: scalza, assonnata e appoggiata al suo torace.

Contrasse la mano sul mio fianco. «Fa' silenzio» mi ordinò, richiudendo la porta dietro di sé.

Avrei voluto dirgli che non serviva che rimanesse e che comunque mia madre si riempiva di pillole, ma erano troppe informazioni e la mia mente era troppo annebbiata. «Siamo okay» biascicai.

Avevo ancora gli occhi chiusi, perché tenere le palpebre sollevate sembrava un'impresa titanica ma lo sentii appoggiare qualcosa a terra, i miei tacchi probabilmente.

«Dov'è la cucina?».

Sollevai stancamente un braccio indicando la sua sinistra.

«Vieni» m'intimò.

Christian catturò la mia mano e mi convinse a seguirlo. Non avevo bisogno che lo facesse. Che mi guidasse nella mia stessa casa. Avrei potuto raggiungere la cucina ad occhi chiusi anche in quelle condizioni.

Beh, quasi.

Quando si fermò di colpo, per poco non lo travolsi. Barcollai, appoggiandomi al bancone per non cadere.

«Quanto cazzo hai bevuto, Claire?». La sua voce era carica di nervosismo, come se fosse arrabbiato con me.

Scossi la testa, ma solo perché non volevo pensare all'alcol. Non volevo pensare a niente che avesse a che fare con il mio stomaco o con qualcosa di liquido.

Infilò le dita tra i miei capelli, costringendomi a sollevare il viso. Era una sensazione così bella che non avrei voluto aprire gli occhi. Mi sforzai di farlo comunque, cercando di concentrarmi. La cucina era ancora in penombra, Christian aveva acceso solo la piccola luce sopra ai fornelli, probabilmente per non attirare l'attenzione dei miei genitori. Forse avrei dovuto dirgli davvero della passione di mia madre per le benzodiazepine.

«Non gli interessa» blaterai, sollevando la mano nella direzione in cui pensavo ci fosse la loro camera.

«Cosa?».

Tornai a chiudere le palpebre. «Ai miei, se torno così». Mi concentrai per mettere insieme le successive sillabe. Le parole avevano un nonsoché di divertente da ubriaca. «L'importante è che non mi vedano i vicini».

Il silenzio che seguì fu così lungo che mi ritrovai ad aprire gli occhi. Christian mi stava ancora fissando, o forse era passato un solo secondo e io avevo una percezione completamente distorta del tempo, non lo sapevo. Alla fine, si limitò a rilasciare un lungo sospiro e afferrò un bicchiere. «Bevi tutto» mi ordinò, facendo scorrere l'acqua dal lavello.

Scossi la testa. Non mi andava di ingerire nulla, avevo lo stomaco sottosopra e lì, stretta tra il suo corpo e il bancone, sentivo solo di voler chiudere gli occhi e dormire. 

«Claire» ripeté. L'urgenza della sua voce mi spinse a guardarlo. L'espressione indecifrabile non c'era più. Non c'era mai quando eravamo solo noi due. «Bevi» disse, facendo oscillare il bicchiere. Quando ripresi a scuotere la testa, la sua mano finì sulla mia guancia. Dio, era così calda e quel tocco così piacevole che avrei voluto rimanere così per sempre. Christian si avvicinò ancora, continuando a osservarmi. Con uno sguardo come il suo avrebbe dovuto essere illegale. «Ho bisogno che ti fidi di me per una volta, okay?» mormorò piano.

Sapevo di essere troppo in aria per prendere decisioni, ma onestamente non riuscivo a capire nulla. Alla fine, sollevai semplicemente il mignolo. «Tregua» dichiarai.

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