63 - Passato (III)

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Claire


Bellissima.

«Sei bellissima, Claire».

La voce di Alison si sovrappose a quella di suo fratello, che ancora rimbombava nella mia testa dalla sera precedente. Aveva detto che ero bellissima e poi mi aveva baciata, anche dopo avergli detto che non avrei risposto alle sue domande, che non avevo spiegazioni da offrirgli. Al pensiero della sua bocca sulla mia, del modo in cui le sue mani mi avevano accarezzata, il mio cuore sfarfallò.

«Giuro, il rosso è il tuo colore» continuò a blaterale, tastando la gonna liscia e semplice del mio vestito. «A mio fratello verrà un colpo, quando ti vedrà così».

Mi schiarii la voce, avevo la sensazione che la tensione mi avesse congelato le corde vocali. «Crede che me lo sia dimenticato, vero?» le domandai, sistemando una spallina. «Crede che non sappia che è oggi, l'anniversario?».

Quando mi guardò, lessi la risposta nel suo sorriso di scuse. «Prima di oggi non sei mai venuta al galà di beneficenza per nostra madre».

«E tu sai perché» mi giustificai veloce.

L'idea di aver ferito tutti loro con quel mio comportamento mi feriva a mia volta. Al primo anniversario dalla morte di Mirabelle, il signor Case aveva organizzato un galà per commemorare la scomparsa della moglie e quest'anno Alison aveva insistito per includere un concorso artistico a scopo benefico.

Alzò le mani come se si volesse discolpare. «Lo so, lo so» mi rassicurò. «Tu e Chris eravate in guerra e non volevi peggiorare le cose». Si alzò e glielo lessi nell'espressione serena che non era arrabbiata con me. «Detto tra noi, però, Chris è in guerra con il mondo comunque». Aggiustò la mollettina luccicante tra i capelli. «Gli farà bene averti attorno».

Evitai di incrociare il suo sguardo e finsi di controllare un'ultima volta i sandali oro. Non l'avrebbe pensata allo stesso modo se avesse saputo di tutti i litigi, delle ripicche, delle bionde che aveva baciato per indispettirmi o del male che involontariamente continuavo a fare a Logan. Sapevo che io e Christian potevamo essere di più, ma ricadevamo negli stessi schemi autodistruttivi di sempre. Forse il punto era che nessuno di noi due si fidava fino in fondo e per quello continuavamo a sbagliare ancora e ancora.

«Beh, lo scopriremo a breve» dichiarai, invitandola a precedermi. Alison era la madrina dell'evento e per l'occasione non solo aveva lasciato la clinica per raggiungere la tenuta affittata dal padre, un'enorme bolla di cristallo e fiori di campo che si specchiava sulla baia di Boston, ma aveva anche dovuto fingere di essere rientrata da poco in città.

«Cosa dirò se mi chiederanno cosa faccio nella vita?» mi sussurrò, sbirciando oltre la porta della camera dove ci stavamo cambiando.

La hall era colma di personalità illustri di Danvers e di Boston, insieme a una marea di uomini e donne che non avevo mai visto prima, stretti nei loro vestiti sartoriali. Il signor Case aveva dato fondo a tutte le sue conoscenze per organizzare quell'evento.

«Puoi dire quello che vuoi» le ricordai. Il fatto che suo padre le avesse chiesto di non parlare della clinica mi faceva ancora infuriare e sapevo che Alex e Christian la pensassero uguale. Era lei a dover decidere quanto condividere della sua vita, nessun altro avrebbe dovuto immischiarsi.

«Claireee». Alison allungò il mio nome trasformandolo in un lamento. «Sai che non posso, e non voglio farlo stasera comunque».

Annuii, quello lo capivo. «Allora dì che stai studiando a New York. Ti ho parlato così tanto di quella città che ormai è come se fossi venuta con me».

«Ho un loft adorabile a Tribeca» mi scimmiottò, fingendo di darsi delle arie, «e il venerdì pomeriggio passeggio sempre sulla Highline, confondendomi con i turisti e assaporando la mia spremuta fresca biologica comprata al Chelsea Market».

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