55 - Segreti (II)

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Claire

Oltre le vetrate che si specchiavano sul fiume Charles, il luccichio scintillante delle barche ormeggiate nella baia mi aveva distratta almeno per un attimo dall'assurdità di quella situazione.

Ero imbambolata e sicuramente ancora sconvolta e, soprattutto, Christian mi aveva portata nel suo loft di Boston.

«Se vuoi farti una doccia, la camera degli ospiti è alla fine del corridoio» lo sentii dire mentre chiudeva la porta dietro di sé. «Per la cena pensavo di ordinare qualcosa, invece».

Mi voltai a fissarlo, mentre ancora stringevo la borsa con dita tremanti. Dietro la patina d'indifferenza con cui si stava togliendo le scarpe senza neppure guardarmi, ci vedevo tutto lo sforzo che stava facendo per essere cordiale.

Perché noi due non eravamo amici.

Perché offrirmi una via di fuga dopo avermi trovata in uno stato di semi shock, era più di quanto mi sarei aspettata da lui.

Christian finalmente alzò gli occhi su di me. Se ne stava scalzo, con i pantaloncini da corsa e la maglietta nera che gli cadevano addosso in una maniera così disinvolta da essere al limite del ridicolo. Mi fissava, e impiegai qualche minuto per rendermi conto che fosse in attesa di una risposta.

«C-certo» balbettai. Poi ci riprovai: «credo che farò una doccia».

Lo vidi annuire lentamente, anche se adesso era lui che non mi stava più guardando. Fece vagare gli occhi oltre il mio viso, verso la vetrata, prima di voltarsi di colpo in direzione in una moderna rampa di scale. Sembrava a disagio. «Mi cambio anche io» replicò, sempre con quel tono distaccato che mi stava facendo uscire di testa, perché urlava in un'unica direzione: pietà. Pietà per me e per la figuraccia che avevo fatto solo una ventina di minuti prima. «Pensa a cosa vuoi per cena» aggiunse perentorio, prima di iniziare a salire le scale.

Non mi mossi di una virgola, neppure ripresi a respirare finché la sua figura non scomparve al piano superiore. Solo allora mi concessi di liberare un lungo sospiro. Dio, mi sentivo un tale disastro!

Mi sedetti sul divano ad angolo, proprio di fronte a quello spettacolo di luci che mi aveva incantata prima, ma che adesso neppure notavo. Era bastato solo un messaggio, un unico contatto da parte di Bay e il vortice di New York si era riaperto di colpo, rischiando d'inghiottirmi. Infilai le mani tra i capelli, cercando di controllare il respiro. Non aveva senso reagire così, ero in Massachusetts, ero a casa... non ero più in pericolo.

Sapevo che me lo sarei dovuta ripetere all'infinito, prima che il mio corpo iniziasse anche solo a crederci. Gli incubi sarebbero tornati e con loro l'insonnia e la tachicardia. Forse mi sarei dovuta decidere a chiamare quel maledetto terapeuta che avevo contattato al mio rientro a Danvers, perché non potevo continuare così.

Eppure, anche quando ammettevo di aver bisogno di aiuto, provavo sempre a farcela da sola. Non avevo lasciato avvicinare nessuno dopo New York: non avevo raccontato niente ad Alex, avevo detto ancor meno a Logan. Mi sentivo debole e fragile, ma nonostante ciò ancora non riuscivo a chiedere aiuto.

Forse la colpa era dei miei genitori, perché mi avevano sempre fatta sentire un peso ogni volta che qualcosa non andava. Forse, però, la colpa era anche un po' mia, perché adesso ero grande a sufficienza per non seguire le loro regole, se mi stavano strette.

Il tocco delicato di una mano sulla mia spalla mi fece sobbalzare. Mi spostai di colpo verso la fine del divano, nell'esatto istante in cui Christian sollevò le braccia per farmi capire di non essere un pericolo.

«Scusa, non volevo spaventarti».

Si era cambiato. I pantaloncini erano stati sostituti da una tuta grigia e i capelli biondi erano più scuri e ricci, probabilmente inumiditi dal getto della doccia.

Stelle avverseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora