74 - L'ultima paura (III)

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Claire


«Mi ricordi perché lo stiamo facendo?».

Sistemai il laccio legato alla mia caviglia: un cinturino finissimo di piccole scaglie argentate che ruotava più volte attorno al mio polpaccio. Mi era sembrata una buona idea acquistare quel paio di scarpe mentre ero seduta su uno dei divanetti di Macy's, a sorseggiare il mio caffè freddo vanigliato. Ora che ci dovevo camminare, però, non ne ero più così convinta.

«Fare cosa?». Christian inserì la marcia, ruotando agilmente il volante un paio di volte per inserirsi nella pigra colonna di macchine che superavano il centro di Danvers. Il suo modo di guidare rifletteva la tranquillità della sua postura. Era rilassato sul sedile come se non avessimo passato gli ultimi cinquanta minuti a destreggiarci nella marea di automobilisti che iniziavano a muoversi in vista del quattro luglio.

Beh, lui si era destreggiato tra gli automobilisti. Io mi ero limitata più che altro a cantare tutta la discografia di Taylor Swift. 

«Andare a quella festa» precisai, osservandolo inchiodare perché una macchina azzurra gli aveva tagliato la strada.

Christian strinse le mani attorno al volante e inspirò lentamente. Stava fissando il parabrezza come se volesse spaccare qualcosa, ma alla fine non batté ciglio. Si limitò a rilasciare il volante e a voltarsi verso di me. «Andiamo alla festa perché così puoi metterti elegante e io posso guardarti le gambe per tutto il tempo» disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

A quelle parole, lo sguardo mi cadde sul vestito che indossavo. Era un semplice tessuto chiaro e lucido, che si univa in vita per poi aprirsi con un generoso spacco.

Okay, forse in effetti ero un po' scoperta, ma era anche la fine di giugno e durante il giorno Boston raggiungeva picchi di quasi trenta gradi.

«Puoi guardarmi le gambe anche quando siamo a casa» dissi, incrociandole solo per stuzzicarlo un po'.

Christian osservò quel movimento lento con la mascella contratta, prima d'incastrare di nuovo i suoi occhi nei miei. «Fallo ancora e niente m'impedirà di girare la macchina e tornare a Boston» mi avvertì.

Lo disse in un modo così serio e carico di promesse, che mi sentii obbligata a stemperare la tensione con una risatina. «Dai, sii serio. Perché avete organizzato questa cosa?».

Lo vidi sospirare, tornando controvoglia a concentrarsi sulla strada di fronte a sé. La macchina azzurra era sparita ma il traffico era ancora tutto lì. «Perché tu e Cassie non avete avuto la possibilità di andare al ballo e volevamo rimediare».

Già, il ballo della scuola.

Pensare agli ultimi mesi mi metteva ancora una strana agitazione addosso. Perdere il ballo era stata una diretta conseguenza del tunnel in cui Alex e Cassie erano finiti a causa della famiglia di lei. Tra il processo e le ulteriori indagini, avevamo deciso tutti di mettere la loro serenità al primo posto e nessuno aveva neppure osato citare questioni secondarie come il ballo di fine anno o la festa del diploma. A ogni modo, lei non era una di quelle che morivano dalla voglia di partecipare agli eventi sociali e io neppure, quindi non mi era sembrata una grossa perdita.

Il tocco intimo della mano di Christian sul mio ginocchio mi riscosse. Doveva avermi fatto una domanda alla quale non avevo risposto, perché le sue dita mi sollecitarono per qualche secondo, richiamando la mia attenzione. Quando però il mio sguardo incrociò il suo, ebbi l'impressione che la mia espressione gli avesse fatto cambiare idea.

I suoi occhi preoccupati sondarono il mio viso, ma vennero subito ricompensati da un sorriso. Non volevo farlo preoccupare, non quando sapevo che si dava ancora la colpa per ciò che era successo negli ultimi due anni. Volevo godermi tutto di lui, di noi e di quel momento che finalmente sembrava così perfetto da far paura. Una paura, però, che con Christian avevo imparato ad affrontare.

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